Io pellegrina

primo pellegrinaggio a santiago di Compostela

12 luglio – 11 agosto 2002

Primo racconto

Un racconto proprio alla fine del pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Era l’11 agosto del 2002 in coda all’accoglienza pellegrini per prendere la ‘Compostela’ il documento testimone dell’avvenuto pellegrinaggio. La fila era lunga, sono rimasta in piedi per la scala per arrivare al primo piano quasi un’ora. In questo tempo ho visto passare tanti pellegrini e fra questi alcuni con i quali avevo condiviso qualcosa, altri semplicemente incontrati, ci siamo scambiati saluti, sorrisi, qualche frase soltanto perché prevaleva la stanchezza e una emozione quasi imbarazzante. Era quasi arrivato il mio turno quando mi sono rivolta ad un pellegrino che avevo davanti con la consueta domanda: da dove sei partito, da quanti giorni cammini e così via. Mi ha risposto che viene da Siviglia, che ha fatto il ‘Camino della Plata’; 1000 km di cammino, un impegno non facile perché le distanze fra un alberque e un altro sono molto lunghi, ma veramente bello e che era felice della sua esperienza. Il suo volto aveva una espressione tale che, fra tutta quella gente, pareva che solo lui avesse fatto il cammino. A mia volta ho parlato del mio tragitto; ho avuto i suoi complimenti, ma io ho desiderato sapere se ritenesse possibile per me, per la mia età, fare la sua stessa esperienza. Lui mi stava dicendo di sì, mentre, poiché era il suo turno, ha fatto il gesto di cedermi il suo posto. Io non volevo, l’addetto ha sollecitato, e in un attimo le operazioni della Credential mi hanno impegnata e così non l’ho visto più.

Avevo già avuto notizie del Camino della Plata. Era stato all’alberque di Hospital de Orbigo. Al mio arrivo l’ospitalero, non c’era. Al suo posto un uomo di mezza età, un po’ rotondo, stava spazzando il cortile, con fare inesperto ma determinato. Più tardi ci ha detto di essere pure lui un pellegrino che veniva da Siviglia, e che in quel momento si era offerto di sostituire il titolare per una emergenza. Parlava come un fiume in piena e nonostante la mia faccia rimanesse interdetta perché capivo poco continuava ripetendo, parlando e spiegando. Parlava del cammino della Plata, di Siviglia. Io cercavo di capire ma ero al tempo stesso imbarazzata e curiosa, e lui continuava a dire tante cose e chissà cosa. Ugualmente nel pomeriggio quando sono andata a chieder informazioni sul percorso che mi aspettava il giorno dopo, la tappa verso Astorga, mi ha dato tante informazioni, io ho colto l’essenziale che mi serviva ma mi è rimasta molta curiosità. Bella Persona!

Qualche giorno dopo sul cammino ho ritrovato Diana, pellegrina compagna di alcune tappe. Era stata anche lei in quell’albergue dove aveva trovato una accoglienza molto premurosa e un ospitalero di animo gentile, quello era il titolare, ma secondo me, il sostituto lo superava in tutto.

Mi hanno detto che a Siviglia, punto di partenza de Il cammino della Plata, non piove mai e che la chiamano la padella della spagna perché ci si frigge al sole, comunque per me è una terra che sforna dei bei personaggi: quello incontrato a Santiago mi è sembrato un angelo, quello di Orbigo un cavaliere errante (in prossimità del ponte di Orbigo, con le sue leggende, era proprio in tono!)

Ed infine ricordo una pellegrina fiorentina conosciuta alla tappa di Leon.  Una ragazza giovane e simpatica che faceva solo alcune tappe che l’anno precedente aveva saltato per un disturbo ad un piede. Mi aveva detto del ‘Camino’ che l’effetto del cammino ci rimarrà addosso a lungo. È anche in attesa di incontrarsi con un ragazzo di Siviglia sperando che la bella storia dell’anno passato continui con gli stessi valori… L’anno scorso era andata con lui a Siviglia e il giorno dopo era piovuto. La pioggia mancava da otto anni! Anche le fiorentine non scherzano…!   

IL BORDONE

Un viaggio/ pellegrinaggio di 500 km offre tante occasioni da ricordare che dovrebbe essere quasi obbligatorio prendere appunti e fermare delle immagini con la macchina fotografica, cosa che la maggior parte dei pellegrini fa. Io non ho fatto né l’una né l’altra cosa e non perché vedevo che comunque c’era Elena che lo faceva, ma, in realtà, tutto quanto mi emoziona mi allontana dal senso pratico.  Poi, in seguito, mi appello ai ricordi, e anche mi rammarico di confondere luoghi, giorni e avvenimenti.  In fondo in fondo, però, mi sembra di riconoscere la convinzione che emozioni come quelle le vivrò di nuovo e non importa se non le ho documentate. Bello avere fiducia nella speranza!

Quella volta, però, ci affidammo al nostro bordone. I nostri due bastoni (per i pellegrini è più appropriato usare il termine bordoni) ci sono sempre stati preziosi per tenere lontani i cani, come perno per saltare un corso d’acqua, per farci spazio dai cespugli e comunque per sostenerci ma, alla fine, questa volta sono diventati anche memoria delle nostre tappe. Eravamo già al terzo giorno ed Elena con uno spillo da balia, elemento indispensabile nel bagaglio di un pellegrino, ha cominciato a grattare la superficie del suo bastone per incidere il nome del paese; io l’ho imitata servendomi di un coltello, poi in seguito, avendo trovato per strada un chiodo, ho adottato una tecnica più incisiva. Le nostre operazioni sono diventate oggetto di curiosità, ci sono stati offerti altri strumenti, abbiamo provato ma, alla fine, avevamo già perfezionato la nostra abilità.

All’inizio del viaggio avevamo deciso di rendere più semplice il bagaglio lasciando a casa i nostri bordoni già esperti di cammini, con l’intenzione di procurarceli sul posto. A Siviglia però la ricerca non fu facile, quasi ci stavamo per arrendere ad un manico di scopa e poi al negozio di articoli sportivi alle poco pellegrine racchette tecniche, quando, in quanto pellegrini sotto sospetto di miracolo, ci si offre alla vista un bel cestone con tanti bastoni, proprio quelli giusti, da benedizione, e anche belli come non avremmo mai pensato di trovare. Elena cerca e ne trova subito uno perfetto, leggero e diritto. Viene il commesso e chiediamo il prezzo pronte a qualsiasi cifra. Va a chiedere. Cinque euro. Scelgo il mio fra i più leggeri e il commesso mi fa notare che il più leggero è pieno di nodi ed è anche un po’ storto, rispondo che per il pellegrinaggio va benissimo e andiamo alla cassa. Prima di pagare il commesso chiede di nuovo, torna e ci dice: tre euro! Non era il solito angelo per i pellegrini vestito da commesso, diciamo un regalo di simpatia. Evviva!

Le tappe

riporto le notizie di questo pellegrinaggio venti anni dopo

Da vera pellegrina, almeno nei limiti delle mie possibilità e con la mancanza di esperienza, ho fatto il Cammino di Santiago di Compostela senza macchina fotografica e quindi non posso riportare che fotografie derivate dalle cartoline, alcune delle quali sono state comprate nei miei cammini successivi per non avere carico nello zaino.

S. Jean pied de port arrivo insieme ad una decina di pellegrini conosciuti in treno. Dopo aver preso il sello comincia il cammino con i primi cinque chilometri. Pernottamento a Utto

Roncesvalles fine della prima tappa. Incontro con i pellegrini preghiera . Cena insieme. Notte nell’antico edificio. Prima notte in ascolto di chi russa. Partenza molto presto, ma qualcuno si è già messo in cammino alle tre di notte.

Zubiri e poi Larrasoana avremmo dovuto fermarsi a Zubiri perchè dopo abbiamo avuto molte difficoltà per trovare da dormire. Chi presiedeva all’albergue non ha convinto nessuno con il suo modo di fare, comunque alla fine, abbiamo trovato presso una osteria. in attesa della cena abbiamo parlato delle corride e della tradizione di Pamplona . qualcuno ha pensato che io fossi una suora ( incredibile, avevo le codine e una pantacalza ) suppongo sia stato perchè per quanto parlassi molto avevo un’aria piuttosto concentrata.

Trinitad de Arre Si passa davanti ad un albergue che è chiuso. Volevo conoscere l’ospitalero ma proseguo per Pamplona. La città è affascinante ma proseguo per Cisur Menor. L’albergue è tenuto dall’Ordine di Malta e l’ospitalero accoglie venendo incontro offrendo da bere.

Prossima tappa è raggiungere Puente la Reina passando l’alto del perdon.

Ottima accoglienza e organizzazione offerta dai padri Reparadores. Primo incontro con le cicogne.

A Estella accoglienza in un grande albergue nuovo. Tappa a Iraque per la fontanella del vino.

A Torres del Rio la chiesa del Santo Sepolcro , a pianta ottagonale. la tappa prosegue fino a Logrogno.

Difficile raggiungere Najera. E ancor più dura è la tappa per Santo Domingo della Calzada, ciò nonostante arrivo a Granon che offre quanto di più bello può trovare un pellegrino. ( vedi racconto)

Villafranca. Alto Pedraia. S. Juan ortega. Atapuerca. Burgos. Tardajos. Hontanas. Castrojeris. Puente Fitero. Fromista. Carion de los Condes. Sahagun. El Burgo Ranero. Leon. Hospital de Orbigo. Astorga. Rabanal del camino. Cruz de Hierro. Molinasecca. Ponferrada. Pereje. O Cebreiro. calvor. Portomarin. Palas de Rei. Ribadiso. Santa Irene. Santiago

Piccola filastrocca sul cammino

nel primo Cammino di Santiago, fotografata da Laura a mia insaputa.

Per una distorsione ad un piede ero costretta ad usare due bastoni.

Otra vez

Il mio secondo pellegrinaggio a Santiago di Compostela

Per il mio secondo pellegrinaggio a Santiago di Compostela avrei voglia di raccontare tante cose e, assieme a queste, anche qualcosa riferita al primo viaggio che via via mi è tornata in mente e che ora mi sembra ancora più viva di un anno fa. Però la voglia di raccontare non trova le parole adatte: troppo fresca di emozione mi sembra di non dire abbastanza o di ripetere le stesse cose.
In verità il secondo viaggio è stato come un altro primo viaggio! Il primo l’ho fatto con mia sorella Laura quasi coetanea e il secondo con mia figlia Elena e con tutta la sua diversa energia. Ho ritrovato alcuni luoghi lì, dove e come li avevo lasciati e mi stavano aspettando, altri non li ho riconosciuti per quanto mi sia sforzata di ricordare… allora ho lasciato i ricordi ai ricordi, per non sciupare niente, per non confondere le emozioni, e il resto lo tengo per i nuovi ricordi; se poi fra di loro faranno confusione non è importante: devono sostenere solo il mio esame.

Prima di partire per il camino ho letto diversi libri di pellegrini con la descrizione del loro viaggio e soprattutto delle loro emozioni. Questo mi ha spinto a tenere un diario giornaliero dove ho cercato di trascrivere un po’ tutti gli avvenimenti e gli incontri di ogni giornata. Ecco qualche stralcio del mio diario, inserito qua e là ad integrare il racconto della mamma.
Sono per lo più descrizioni di brevi momenti. D’altronde il camino è anche questo: incontri persone che in un attimo ti entrano nel cuore, ci fanno un giro veloce e poi spariscono lasciando la scia del loro calore. Il nome non l’hai mai saputo, il viso lo stai già dimenticando, ma quel calore lo senti ancora così forte!

31 maggio 2003

Già alla stazione di Nizza cominciano le emozioni. Elena ed io siamo in compagnia di Jef, un ragazzo americano salito a Genova, mentre aspettiamo che arrivi il treno per Bayonne e per quanto la proiezione del nostro viaggio sia completa, stiamo parlando di altre cose. Ma Elena vede due persone che per lo zaino e il bordone sembrano pellegrini. Mi sposto sulla pensilina e li vedo anch’io, e loro mi sorridono. Si, sono pellegrini, marito e moglie e anche loro come me fanno il camino per la seconda volta, anche loro erano al raduno ligure a febbraio e anche loro sono al corrente del viaggio di Vittorio che è partito da Bolsena …Sorridiamo e allarghiamo le braccia: questa esperienza è ammaliante! Però loro quest’anno non hanno sufficiente tempo per fare tutto il percorso e cominceranno da Burgos, quindi non ci incontreremo e allora ci salutiamo, auguri, incoraggiamenti e …ULTREYA!!!!

1 giugno 2003

Alla stazione di Bayonne eravamo già un gruppetto di italiani ad aspettare il treno, poi sul trenino l’incontro e lo scambio di informazioni si è allargato con tanti pellegrini di varie nazioni. Come inizio è stato esaltante, ognuno presentava il proprio progetto o vantava qualcosa di particolare, una bella animazione ed un comune entusiasmo, ma i percorsi poi sono stati diversi e le possibilità pure, così che con nessuno di loro ci siamo trovati a Santiago.
Dopo la registrazione all’accoglienza a San Jean Pied de Port, prima tappa di 5 km, lo stesso pomeriggio dell’arrivo, camminiamo fino a Huntto, così si alleggerisce la tappa di domani. Il rifugio è in fase di ampliamento, come l’anno passato, e per di più, l’accoglienza è fredda e quasi diffidente, nonostante siamo arrivati sotto un temporale che è scoppiato negli ultimi cinquecento metri. Comunque, Elena, io e Giuliano, un pellegrino di Verona, ci sistemiamo, cominciamo a muoverci da pellegrini. Giuliano trova nello zaino una lettera delle figlie: è commosso. Arrivano bagnati anche Pietro e Massimo. Vado con Elena a cena nella pensione che gestisce il rifugio e capisco che la loro organizzazione preferisce che si prenoti, ma soprattutto che si ceni lì. Ci sono almeno altre 50 persone, credo tutti francesi, una pellegrina tedesca è seduta accanto a me. Ho pensato che fossero persone in gita sui Pirenei, e invece mi dicono che sono tutti pellegrini; allora quasi alla fine della cena mi alzo e faccio un brindisi: «A Roncisvalle!». Mi risponde il gelo. Avevo pronunciato male il nome e dopo la correzione dell’unica pellegrina più acuta, si alzano i bicchieri al nome pronunciato correttamente in francese: a Roncevaux!
Comunque non sono convinta che quelli fossero pellegrini! La cena è stata buona e abbondante, tanto che ho portato via le fette di arrosto che non ho mangiato per Pietro e Massimo, però al momento del conto c’è stata qualche discussione. La pellegrina tedesca dice che sulla sua guida il prezzo era definito di 15 euro. Ne chiedono 18 e dicono che è solo per la cena e che l’albergue è gratis. Però Massimo e Pietro che non hanno mangiato vanno a pagare 6 euro a testa.

2 giugno 2003

I Pirenei non hanno voluto proprio farsi ammirare il mattino dopo, nuvole, nebbia, minaccia di pioggia. Non abbiamo visto il sorgere del sole, non abbiamo visto i grandi panorami, le mie descrizioni ed i miei ricordi non erano sufficienti a togliere la delusione. Ci torneremo, va bene ci torneremo, ma proprio quando le nebbie sopra gli alberi si diradavano e il nostro sguardo è stato attratto dal colore intenso della nebbia che era rimasta in basso fra i tronchi, i Pirenei ci hanno fatto il loro regalo. Guardando la nebbia densa avevamo l’effetto di uno specchio e attorno alla nostra testa si creava un arcobaleno circolare, come una aureola. Sorpresi, increduli e affascinati ci siamo spostati più volte per verificare ma l’effetto si ripeteva e non abbiamo potuto far altro che ammirarlo e gioirne. Se non ci fosse stato Giuliano con noi, forse Elena ed io avremmo finito per credere che il tutto fosse l’effetto del nostro entusiasmo. Giuliano il testimone!

Costeggiamo i boschi di faggi che scendono ripidi fino a valle. Sono abbracciati fin dalla base dalla nuvola che ricopre l’intera vallata. Voltandosi a guardarli, il sole ci picchia sulle spalle e proietta sui tronchi un fascio d’ombra di forma strana, data la nostra attrezzatura pellegrina. Ci fermiamo ad osservarla, divertite e scopriamo la vera magia: tutt’intorno alla sagoma del viso, ecco che appare un’aureola più chiara. Sembra che luccichi! Invitiamo Giuliano a fermarsi anche lui a verificare la sua santità. Cerchiamo di condividere la magia anche con i pellegrini che ci stanno superando, ma forse l’evento è dedicato solo a noi, perché tutti lanciano uno sguardo fuggitivo senza neanche fermarsi e ci fanno un sorrisino di convenienza.
Arrivati al Vierge de Biakorre ci dovrebbe essere un bellissimo panorama. Ahimè la nebbia è proprio fitta. Appoggiamo gli zaini per terra e ne approfittiamo per sgranocchiare qualche biscottino. Rimaniamo poco, perché siamo sudati e cominciamo a sentire freddo. Vediamo dei cavalli al pascolo. Io mi emoziono ma non faccio rumore per non disturbarli. E infatti non alzano nemmeno il muso per darci un minimo di considerazione. Troppo intenti a mangiare. Continuiamo a camminare sulla strada asfaltata. Dopo un po’ sento una strana presenza alle nostre spalle. Mi volto spaventata pensando sia un cavallo. E’ invece un francese che ci saluta. Io gli dico “très vite!”, dato che stava andando ad una velocità incredibile e lui risponde noncurante che è partito alle 6. Rispondiamo “anche noi!”. Sì, però lui da S. Jean! Come non detto! Per finire, mentre ci supera vedo che si porta alla bocca la sigaretta e dà una bella aspirata. Resto a bocca aperta per il coraggio! Io ho appena rotto il fiato e sono passate due ore! Ma sembra che il fumo gli dia ancora più energia, perché accelera e sparisce.

Roncisvalles ci accoglie sempre solenne, severa, essenziale. Alla benedizione del pellegrino Elena si commuove. Veramente la cerimonia dell’anno scorso mi era sembrata più bella perché tutti avevamo cantato ‘ Salve Regina ‘ in latino, però il momento è certamente sempre pieno di carisma. Ci sono lavori di ristrutturazione e per i pellegrini è stato attrezzato il grande edificio in pietra che è alla sinistra della Collegiata, forse una vecchia chiesa. Alle 16 apre. Due hospitaleri grandi e forti e sicuri del proprio mandato organizzano senza fare il minimo errore cento pellegrini nelle file dei letti al castello. Ci sono servizi nuovi ed efficienti ricavati nel seminterrato. Nonostante il grande affollamento tutto si è volto con tranquillità. Se non avessimo visto intorno a noi la serenità e la pace in tutti i volti avremmo potuto ravvisare in quell’insieme di persone l’aspetto di un carcere o qualcosa di simile. Invece eravamo lì tutti liberi e di nostra spontanea volontà e contenti di esserci. Mi sono fermata a guardarmi intorno il mattino dopo prima di ripartire. La foto che Elena ha fatto non rende l’immagine che mi è rimasta dentro!

3 giugno 2003

In Spagna i bar ed i negozi non aprono prima delle nove e se al mattino si parte presto è difficile fare una colazione calda. A Biscarrete, quasi con sorpresa si trova in una piazzetta un piccolo bar. Sembra messo lì proprio per i pellegrini, non è troppo fornito, giusto l’essenziale; tanto essenziale che un pellegrino spagnolo chiede pane e olio. Se lo avessi saputo lo avrei chiesto anche io! In seguito, facendo attenzione, ho visto che in quasi tutti i bar, dietro al banco c’erano delle piccolissime oliere, e allora un giorno l’ho chiesto e me lo hanno portato anche con il pane tostato.

La giornata è bella, il sole si sta alzando e in mezzo al bosco i colori sono fantastici. Una cosa carina di questi boschi è che ogni tanto si incontrano dei cancellini, forse passaggi di proprietà. Ogni pellegrino apre, passa e chiude accuratamente il cancello, come richiesto dai cartelli.

Trinidad de Arre è un luogo per i pellegrini che hanno il privilegio di camminare tanto e in fretta. Mi riferisco all’ albergue che è bello fuori e da dentro. Ci volevo sostare e ci sono riuscita: abbiamo superato Zubiri e Larrasoana ed è stata la nostra tappa più lunga in chilometri di tutto il cammino. Gli amici italiani mi hanno ringraziato per il consiglio che avevo dato loro di arrivare fino lì: abbiamo fatto una cena insieme. Giuliano ha fatto la spesa, non so chi abbia cucinato. Io ero troppo stanca e anche un po’ preoccupata per lo sforzo eccessivo che alla seconda tappa avrebbe potuto essere rischioso. Peccato che la maggior parte dei pellegrini si perda quel luogo.

Io ho un gran bruciore agli occhi, per l’allergia e il vento, cominciano i campi di grano.

4 giugno 2003

Siamo vicini a Pamplona e quindi al mattino ci arriviamo molto presto ma troviamo le chiese, il rifugio e la maggior parte dei negozi ancora chiusi. La città è molto bella anche così, anche senza l’aspetto turistico che ho visto l’anno scorso; la percorriamo seguendo le indicazioni del camino. Da molte finestre sono appese bandiere contro la guerra, sono diverse dalle nostre.
La discesa dall’Alto del Perdon è più faticosa dell’anno passato. Stanno rifacendo la strada e il percorso è in fase di ampliamento, ma per il momento è piena di sassi. Ci fermiamo a Uterga. L’albergue è privato e costa 10 euro. E’ bello, è nuovo e pulito ma in fondo per una camerata di letti a castello che fanno rumore al minimo movimento dobbiamo dire che è caro. Anche la cena è cara. Con noi c’è Giuliano e la coppia di Bergamo mentre Pietro e Massimo affrontando un bel temporale vanno a Obanos. Li vediamo proseguire sotto la pioggia ma troveranno un’ottima accoglienza come possiamo verificare la mattina successiva quando ci fermiamo a prendere il sello.

Alle 19.30 scendiamo a cena. Insieme a noi c’è una signora svizzera che ieri era con noi a Trinidad de Arre, e due ragazzi spagnoli, una coppia. Loro dormono da un’altra parte: i ragazzi proprio di fronte a noi, in una specie di rifugio, mentre la signora dorme in una stanza del Comune, dove non si paga niente e addirittura erano rimasti due posti (dovevano essere quelli per Pietro e Massimo!). Il Comune è proprio di fronte alla fontana, nel centro del paese.
La cena è molto abbondante. Come primo mamma prende l’insalata russa, io l’insalata di arròs. Mi arriva un’insalata di riso con il pesce. Guardo stupita il piatto (mi aspettavo l’arrosto!). La mamma prende una forchettata di riso e rivolgendosi al ragazzo spagnolo, gli chiede “come si chiama questo?”. “Arròs!”. Lo mangio comunque con gusto. A fine cena, la signora svizzera ci saluta perché vuole andare a letto presto. Guarda il ragazzo spagnolo e lo chiama “Arròs” e allora tutti ci mettiamo a ridere. Lui spiega che si chiama Oscar e che prima la mamma aveva chiesto come si chiamava il riso in spagnolo e non “come ti chiami”. Da allora, decidiamo di chiamare il ragazzo “Arròs”.

5 giugno 2003

Puente la Reina, luogo importante del camino e bello, lo passiamo senza fermarci, ma il ponte ti rimane negli occhi per sempre.

Arriviamo al paese di Lorca e alla fontana della piazza incontriamo altri pellegrini. Ci rifocilliamo e dissetiamo e mamma telefona a Costanza. In quel momento arrivano Tiziano, Adelaide, Pietro e Massimo. Giuliano è ancora un po’ indietro.
Passa un falco bassissimo e siamo tutti con il naso all’insù e a bocca aperta per la meraviglia delle acrobazie. Due signore locali, sedute di fronte a noi sul ciglio della loro casa, ci guardano incuriosite, ignorando il fantastico volo dell’uccello. Decidiamo di ripartire senza aspettare gli altri, dato che abbiamo preso un buon ritmo. Passando davanti alla fontana, vedo Massimo in una posizione strana e gli chiedo se ci ha messo dentro i piedi. Lui mi risponde: “non lo vedi il fumo che esce?” Scatto una foto ai campi di grano pieni di papaveri e margherite, presa dall’entusiasmo della mamma. Sullo sfondo c’è Villatuerta.
Entrando nel paesino, incrociamo due ragazzi davanti ad una Golf. Li saluto, come d’abitudine, e loro rispondono qualcosa sghignazzando. Ci riposiamo 5 minuti nella piazza deserta. Riprendiamo la strada e noto con stupore che c’è un albergue. Entriamo per il sello. Sembra di entrare in un negozio. C’è un tavolo con alcuni depliant e ai lati ceste e scaffali con magliette e gadget del camino. Mamma prende una bottiglietta di aranciata. Chiedo se posso prendere un depliant, dato che quell’albergue non è segnato sulla guida, ma la ragazza, (che non chiamerei ospitalera) molto bruscamente mi dice che non ne ha. Uscendo dal paese ci passa accanto una macchina piena di ragazzi. Nel momento in cui ci sorpassano un ragazzo fa un gran urlo che ci fa prendere un colpo. Insomma: Villatuerta: paese antipatico, quasi come il suo nome!

Gli ultimi chilometri prima di Estella invece non sono belli. Si trovano campi con odore di concime e anche il panorama non è gradevole. L’albergue però riscatta tutto. Ci sono tanti volontari giovani e molto bravi con una eccellente capacità organizzativa. C’è una bella cucina e la sera facciamo un’altra cena assieme. Siamo in sette: Giuliano, Pietro, Massimo, i due bergamaschi e noi. Cuciniamo un chilo e mezzo di penne condite con panna e prosciutto cotto, di secondo formaggio e pomodori, ciliegie e vino della zona. Non è proprio speciale, ed è difficile cucinare fra tanta gente che prepara cose diverse, però ce l’abbiamo fatta. Un hospitalero controlla la situazione e apprezza che noi abbiamo avuto l’attenzione di lasciare qualcosa per la comunità: un chilo di sale e una bottiglia di olio. Dopo cena facciamo la scelta della tappa successiva, due chiacchiere per prendere un po’ di fresco tanto che sento arrivare un bel raffreddore. Corro a letto ma oramai è fatta.

6 giugno 2003

A Estella e anche in altri rifugi, al mattino non si può uscire prima delle sei. Per me questo è un problema perché ho una andatura non rapida e mi piace fare tante piccole soste, quindi quando è possibile parto molto presto. Anche a Elena piace fermarsi a guardare l’ambiente e i panorami.

Da lontano si vedono due pellegrini che camminano piano dondolandosi entrambi. Sorrido perché mi ricordano le due oche degli Aristogatti. Sembrano proprio loro! Ormai la Navarra lascia il posto alla regione della Rioja, la regione del vino, infatti ai campi di grano si alternano i vigneti. Ci raggiungono due coppie di spagnoli, fra cui Oscar e Laja. Allungo il passo e mi volto per far loro una foto. Poi loro proseguono a passo spedito. Incontriamo tre italiani seduti, che fanno un gran casino. Due sono di Torino, l’altro di Bergamo. Parliamo con quest’ultimo, che è il più scatenato. Mamma racconta che l’anno scorso ha compiuto gli anni a Santiago e lui dice che li compie il 4 luglio e chiede se ce la farà ad essere a Santiago per quel giorno. Altroché!
Loro son partiti il giorno prima di noi, da S. Jean e si stupiscono che li abbiamo ripresi. Cerchiamo un punto per fermarci ma per terra è pieno di vermi: aspettiamo punti migliori. Il camino devia a sinistra rispetto alla strada principale. Lo vediamo all’ultimo momento perché sul cippo è seduto un tedesco. Vedo da lontano dei pellegrini e li indico alla mamma facendo la faccia stravolta al pensiero di dover arrivare fin là e faccio ridere il tedesco seduto per terra. Le gambe sono un macigno. Entrambe stiamo facendo fatica ma proseguiamo. Intanto il sole comincia a spuntare e fa veramente caldo. La mamma suda col mio giaccone e dice che chiamerà questo pezzo “la strada dell’aspirina”, per la sudata che sta facendo.

Sono partita da Estella già sconvolta dagli starnuti e per 20 chilometri mi sembra di essere moribonda, ma sono riuscita ad arrivare viva a Los Arcos. Appena entrata nel paese da un altoparlante parte una musica a tutto volume: va bene che avevo fatto tanta fatica ma come accoglienza mi sembra eccessiva. Gloria di pochi secondi: si vedono i segni di una festa popolare. Gli amici di Bergamo ci aspettano per salutarci perché loro, camminatori veri, proseguono. All’albergue devo aspettare perché il gruppetto di italiani alla registrazione fanno una bella confusione, ma poi l’hospitalero vede che sono un po’ stordita e ci dà i letti in un buon posto. E infatti con il riposo e le medicine che ho comprato nel pomeriggio la mia salute migliora. Mentre aspettiamo che la farmacia apra, chiedo a dei ragazzini che sono nella piazza a cosa servono quelle transenne che sono appoggiate ai lati delle strade. Il giorno dopo ci sarà per la festa del paese, la rituale corsa dei tori, sullo stile della festa di S. Firmino di Pamplona. Faccio un cenno di paura e per fortuna al mattino dopo io vado via. I ragazzini ridono ma si sentono anche fieri della loro tradizione fuerte. Ci sono anche Giuliano, Massimo e Pietro, dormono nella ex palestra.

Andiamo a cena con Giuliano in un piccolo ristorante, dove il cameriere ci elenca i piatti con uno sguardo molto serio. Più che un cameriere sembra il proprietario, a cui non va molto giù di servire i soliti menù del dia invece di variare con dei bei piatti raffinati. Ci elenca i piatti con tono veloce e sbrigativo. Noi intimoriti dall’atteggiamento un po’ ostile, abbiamo quasi paura a dirgli che non abbiamo capito niente… Ad un certo punto siamo costretti a chiedere che cos’è il “cordero” e lui, senza fare la minima piega, con un sottile risolino sotto il baffo, ci risponde con un bel “beeeeeee”, dandoci così il benvenuto alla sua tavola.

7 giugno 2003

La sveglia suona alle 5, ma ci alziamo con calma e partiamo alle 6.20 insieme a Giuliano. La giornata è serena. La strada costeggia gli ennesimi campi di grano. Avanziamo con un buon ritmo. Giuliano si stupisce di star meglio coi piedi. Ieri non credeva di poter proseguire. Incontriamo un contadino seguito dalla sua mandria di pecore e in un attimo ci dobbiamo fermare per cedere loro il passo. La chiesa ottagonale di Torres del Rio è da vedere ma è chiusa e andiamo a cercare la signora che ha la chiave. Siamo in tanti ad aspettare, il gruppetto di italiani e una giovane coppietta di Pamplona che nell’attesa fotografa. La ragazza è molto carina, bionda con lunghi capelli; sembra non abbiano voglia di socializzare e da lì fino a Santiago ci scambieremo solo dei cenni di saluto e qualche indicazione essenziale.
Rinunciamo alla visita della chiesa. Io l’ho già vista ed Elena ha dedicato il viaggio all’aspetto naturalistico.
A Viana sostiamo nel parco che è vicino alla chiesa di S. Pedro e all’albergue. Mangiamo, riposiamo e lasciamo passare le ore più calde per proseguire. Due ciclisti si sono fermati e mi sentono parlare: sono fiorentini; facciamo due chiacchiere fra conterranei… ma qui siamo tutti e solo pellegrini. Gli ultimi nove km prima di arrivare a Logrono sono brutti, quasi tutti su asfalto.
Abbiamo lasciato la bellissima Navarra.

Alle 16 partiamo, preceduti da Raffaele, il chirurgo di Torino, già conosciuto, col quale facciamo un po’ di chiacchiere. Il sole è forte e ci cospargiamo di crema. Usciti dalla città vediamo un cartello che indica un sentiero locale verso due localiltà, ma niente freccia gialla. D’altronde non ci sono altri segnali. Andiamo da quella parte. Si fiancheggia la statale sotto una piccola pineta, ma il caldo è torrido. Io ho i pantaloni lunghi per le ustioni dietro al ginocchio. I piedi mi fanno un gran male perché sto usando i sandali da troppo tempo. In un sottopassaggio c’è un bel messaggio:
TRES COSAS HAY EN LA VIDA GUE PRECISA EL PEREGRINO:
BUENAS PIERNAS, GRAN COMIDA
Y SI HABLAMOS DE BEBIDA POCA AGUA Y MUCHO VINO.

Logrono è una città grande e bella, ma noi non abbiamo il tempo di visitarla. Io non vedo l’ora di andare a letto ed Elena invece esce con il gruppo di ragazzi spagnoli. Io ho mangiato qualcosa con Giuliano nella cucina. L’albergue non è nella sua piena efficienza, la volontaria è gentile ma sembra un pochino rilassata, forse si considera ancora in bassa stagione.

Mentre aspettiamo che la lavatrice finisca di lavare i nostri vestiti, ci mettiamo i piedi a bagno nella fontanella all’entrata e ci mettiamo a chiacchierare con un gruppo di ragazzi spagnoli. Ci sono Oscar (Arròs) e Laja, conosciuti ad Uterga, e altri ragazzi che ci dicono i loro nomi, ma ci rimane impresso solo quello di Berto, perché l’anno scorso ha fatto la raccolta delle mele in Trentino e parla bene l’italiano.
Berto mi dice che vanno a bere una birra fuori e mi chiede di andare con loro. Non posso perché devo ritirare i panni dalla lavatrice, ma mi faccio dire dove vanno (sulla piantina), così posso eventualmente raggiungerli. L’hospitalera mi chiede i 2 euro per l’asciugatrice e mi dice che ci pensa lei, così io posso uscire coi ragazzi. Vado in cucina ad avvisare la mamma e li raggiungo nella zona che mi hanno indicato. Li trovo nel primo bar della strada. Mi accolgono tutti con un gran sorriso e mi danno in mano un bicchiere di vino. Berto mi allunga una forchetta e mi dice di assaggiare. Il gusto è strano e la consistenza sembra quella di un cartoncino. Mi chiede com’è ed io per gentilezza gli rispondo “così così”, sperando capisca la verità dalla mia faccia. Chiedo cos’è e mi dice che è orecchio di porco. Qualcuno lo corregge: de cordero. Orecchia di pecora? Che schifo!
Raccogliamo 5 euro a testa per il giro dei bar e li diamo tutti a Fernando. Penserà lui a pagare per tutti. Qui si usa girare tutti i bar della strada, prendendo degli spuntini e bevendo vino o birra. 2° bar: champignon fritti su uno stecchino. Ottimi ma difficilissimi da mangiare, dato che l’altra mano è occupata dal bicchiere di vino. L’alcool aiuta la parlantina, ma io ascolto molto e pronuncio solo qualche frase, per far capire che sto seguendo il discorso. Terzo giro: orecchia di pecora e bicchiere di vino. Faccio la faccia schifata ma la accetto, anche perché sono a stomaco vuoto. Mi accorgo che siamo solo io e Fernando a mangiare e le ragazze mi dicono che se voglio posso buttarla. Mi faccio coraggio e la mangio lo stesso, cercando di non pensarci. Ci facciamo scattare una foto con la mia macchina. Quarto giro: panino con wurstel di pollo e vino. Si comincia a raccontare barzellette e comincio a non capire più niente. Provo a pensare ad una barzelletta facilmente traducibile, ma rinuncio dato che il vino sta cominciando a dare i suoi effetti. Si torna all’albergue traballanti, mentre il centro si sta riempiendo di gente per festeggiare tutta la notte la festa della Pentecoste.

8 giugno 2003

Partiamo alle 6, e per almeno un’ora si attraversa la città. La gente in centro è ancora in giro a far festa. Oggi è la Pentecoste. La giornata è coperta, ma fa caldo e sono a pezzi. Ieri non mi sono riposata e non ho recuperato il male ai piedi. In più si aggiunge tutto il vino che ho bevuto con i ragazzi spagnoli e il non aver dormito quasi per niente per un ciclista accanto a noi che russava come un trattore. Facciamo spesso dei riposini e procediamo. Arriviamo al lago e a un bel parco naturale e vedo anche il culino di un coniglio che scappa via al nostro arrivo. La strada fa una piccola salita e voltandosi indietro c’è un bel panorama. Superato il colle si incontra una fabbrica di legno che viene annunciata da una lunga serie di croci fatte con dei pezzetti di legno, incastrati nella rete metallica. Anche noi lasciamo il nostro contributo.
Ad un certo punto sento una fitta dolorosissima alla caviglia sinistra. Mi fermo un attimo per capire di cosa si tratta. Proseguo e la fitta va e viene. Mi fascio la caviglia con un fazzoletto e proseguiamo anche se la mamma preoccupata vuole chiedere un passaggio. Le dico di no. Proseguiamo lentamente, io aiutandomi con entrambi i bastoni. Si arriva in cima all’alto che poi non è così pesante. Ci sono tanti mucchietti di sassi fatti dai pellegrini, sono bellissimi. Mamma mi fa una foto. Facciamo un riposino e ripartiamo. Arriviamo ad una fabbrica enorme, verde e gialla, con enormi mucchi di sabbia. La strada si divide. Destra o sinistra? La freccia indica la destra. La mamma, però, è titubante, perché c’è un paese sulla sinistra che sembra proprio Najera e questa strada non se la ricorda affatto. Alla fine, seguiamo la freccia e andiamo a destra. Passiamo accanto ad una collinetta dove un gruppo di ragazzi sta facendo Rally. L’autista in macchina va come un matto e curvando sgomma sul ciglio della collinetta, proprio sopra le nostre teste. Momenti di apprensione. Arriviamo su un rettilineo di 2 km, in fondo al quale c’è il paese. La mamma non ricorda niente, ma andiamo avanti. Arriviamo al paese di Huércanos. Chiediamo indicazioni per Najera. Era sulla sinistra!

Il tratto più difficile del camino è stato quello per arrivare a Najera. I motivi sono diversi: io non sono ancora ristabilita dal raffreddore ed Elena accusa problemi ai piedi e per finire abbiamo anche sbagliato strada.
Abbiamo fatto molte soste e alternando un po’ di cattivo umore e un po’ di pazienza arriviamo in vista della città. Si dovrebbe trovare il muro con la poesia scritta e invece per una segnalazione sbagliata arriviamo fino al paese vicino. Proprio non ci volevano cinque chilometri in più! All’albergue tutti si chiedono se hanno trovato la strada giusta: metà sì e metà no.
Al ristorante non riesco a mangiare niente perché ho lo stomaco scombussolato dalle medicine, ma la cameriera mi aiuta e mi consiglia della ricotta e della camomilla; inoltre, non mi fa pagare niente: la ricotta passa per il dolce di Elena e la camomilla al posto del vino. Proprio gentile!


All’albergue di Najera trovo questo bel messaggio:

Con el dinero se puede comprar
la cama, pero no el sueno
los libros, pero no la inteligenzia
la comida, pero no el hambre el sexo, pero no el amor
la diversion, pero no la felicidad
la cruz, pero no la fe
un lugar en el cementerio, pero no en el cielo

9 giugno 2003

Poco dopo Azofra con un passo calmo e costante vediamo camminare davanti a noi una signora anziana con lunghi capelli bianchi raccolti. È in viaggio da non so quanti mesi dalla Svizzera. Non sappiamo come farle i complimenti ma lei quasi scusandosi dice: “sto bene in salute, perché non dovrei farlo?”. È in compagnia di una ragazza che è venuta a trovarla per qualche giorno. Il «camino» è faticoso e pesante perché fa molto caldo e si risente la faticaccia del giorno prima. In questa situazione è confortante vedere passare una macchina di servizio del comune di Santo Domingo della Calzada: si avvicina ai pellegrini, rallenta, apre la portiera e offre acqua fresca. Noi non ne abbiamo approfittato e neppure Giuliano al quale, vedendolo un po’ zoppicare avevano anche offerto anche di salire in macchina.
A Ciruena ci fermiamo per mangiare qualcosa. C’è solo una piazzetta con una fontana delle panchine e un po’ di ombra. Poche case, una chiesetta con una lapide interessante con riferimenti ad una data prima dell’anno mille, non si vede nessuno del paese, solo passaggio di pellegrini. Ci sono però i cassonetti per la raccolta differenziata. Arriva anche il medico di Torino con un compagno di viaggio anch’esso italiano. Da dove spunta questo uomo che ci affligge subito con consigli sugli scarponi (solo i suoi sono tutti assolutamente di cuoio e i nostri sono di plastica per quello abbiamo le vesciche) e sul modo di camminare. Purtroppo, dopo un po’ finisco per chiedergli quale sia il suo segno zodiacale e mi ritrovo con una risposta che riguarda la quantità di donne che lui deve possedere ogni anno. La mia indignazione scoppia, gli altri uomini sogghignano, Elena mi invita ad ignorarlo.
Forse non è merito di Santiago, ma qualche altro santo ha aumentato le nostre forze e diminuite le loro perché non lo abbiamo più incontrato (il medico comunque camminava già piuttosto male). A Santo Domingo della Calzada ci fermiamo. Elena visita il museo e la chiesa con Pietro e Massimo. Bella la sosta nella piazza del paese. Siamo in tanti, una parola qui, un saluto là. C’è il gruppetto di italiani che continua a fare confusione (si definiscono l’armata Brancaleone), ma noi nel pomeriggio proseguiamo e li lasciamo lì. Giuliano decide di fermarsi qui per un giorno e riposare, sperando di recuperare i problemi di vesciche. Ci facciamo scattare una foto tutti insieme di fronte all’albergue. Sono le 17.30. Ripartiamo insieme a Pietro e Massimo. Per un po’ seguiamo Pietro che va ad un ritmo velocissimo ma io ed Elena ci dobbiamo assolutamente fermare. Siamo distrutte. Non siamo abituate a quel ritmo così veloce.
A Granon arriviamo circa all’ora di cena. Mettiamo in crisi l’hospitalero: aveva preparato la cena per trentacinque e a tavola siamo quarantadue. Noi abbiamo contribuito con delle patate che avevamo raccolto per strada e lasceremo una buona offerta, ma questo non può risolvere il problema dell’ultimo momento. Marina ci accoglie con un abbraccio e un bacino per sello.
Dormiremo nel coro della chiesa e ci porta delle coperte perché teme che possa esserci freddo. Anche lei dormirà con noi. La cena è stata sufficiente per tutti: miracolo! Dopo cena ci riuniamo per una orazione. Il parroco non c’è ma è sostituito molto bene. Durante l’orazione un ragazzo che parla diverse lingue viene investito del ruolo di traduttore, ma si intimidisce e non riesce ad andare avanti in nessun discorso. Comunque tutti riescono a capire che i nostri nomi che ora vengono registrati l’indomani saranno citati dai nuovi pellegrini, come oggi si citano quelli di ieri, un pensiero e un augurio a chi sta avanti a noi e dietro a noi.
Granon è sempre speciale.

10 giugno 2003

A Belorado, mangiamo un panino quando vedo il postino: ecco l’occasione giusta! Mi faccio spiegare dove si trova la posta e dopo aver svuotato lo zaino di tutte le cose inutili, parto alla ricerca del “correo”. L’impiegato mi porta una bellissima scatola per la spedizione e sistemo il tutto. Quando il postino pesa il pacco e vedo 1,425 kg, i muscoli delle spalle cominciano a rilassarsi: ora sì che andrò veloce!

Camminiamo un po’annoiate, il percorso è sull’asfalto e il panorama non è interessante. Cadiamo in discorsi banali e così osserviamo le gambe molto magre di una pellegrina che ci ha superate. Si parla un po’ della magrezza, della muscolatura e intanto si cammina e dopo quasi due ore arriviamo a Tosantos. Sappiamo di trovare una accoglienza simile a quella di Granon, ce ne aveva parlato Marina. Ci accoglie un hospitalero francese con la moglie, già volontario sul tratto francese di Le Puy e dopo una settimana lo sarà a Bercianos. L’ambiente è semplice ma confortante, non è richiesto nessun donativo e alle sette e mezzo viene offerta la cena.
Ci sistemiamo sui materassini con attenzione a non disturbare due persone che già stavano dormendo. Quando loro si alzano, nel bel mezzo del nostro sonno, non ci ricambiamo la cortesia e cominciano a parlare forte. Riconosciamo in una di loro la melasecca. Il rapporto non migliora quando all’ora di cena sono le uniche a non essere puntuali anzi la melasecca si lamenta con me perché non l’ho chiamata e l’altra (più rotondella) mi guarda male. Io non so cosa dire. Avremo modo in seguito di confermare la scarsa qualità del rapporto. Chissà se anche loro ci hanno messo un soprannome! La piccola orazione dopo cena si fa nella piccola mansarda che ha le finestrine con i vetri lavorati (peccato che non li veda il mio amico-maestro Luciano).

11 giugno 2003

Partiamo verso le 7. C’è una nebbia fittissima ed una umidità incredibile. All’uscita del paese incontriamo un pellegrino che viene da Belorado. È uno spagnolo sui 50 anni, sembra molto esperto del camino. Dice di averlo fatto già quattro volte, anzi cinque, se si conta anche quella volta che ha interrotto per il male alle gambe. Sta andando a Burgos. Farà più di 50 km! Facciamo un’espressione incredula ma lui si giustifica dicendo che ha poco tempo e che comunque con quella nebbia si cammina bene. Ha un buon passo e senza accorgercene ci adattiamo alla sua andatura e si pedala. A Villambistìa accelera e noi riprendiamo il nostro ritmo. A Espinosa Del Camino un piccolo bracco ci accoglie e, terminati i convenevoli, si gira e guardando le frecce gialle comincia a precederci sulla strada, anche dopo essere usciti dal paese. Veniamo superate da alcuni pellegrini ed il bracco si mette davanti a loro. Lo ritroveremo ad aspettarci poco prima di Villafranca.
Poi lo vediamo tornare verso casa, in attesa di fare da guida ad altri pellegrini.
Villafranca si passa, i Montes de Oca mi deludono, come possono cambiare in un anno dei boschi! A S. J. De Ortega facciamo la nostra sosta, il riposo e la visita alla chiesa ma appena vediamo arrivare il gruppetto italiano ci rimettiamo in cammino. Il rifugio è sempre molto affollato e il posto è frequentato molto anche da turisti.
Per arrivare ad Atapuerca attraversiamo una campagna e ogni tanto ci fermiamo sotto bellissimi alberi per rinfrancarci della calura. Le soste sono proprio piacevoli ma arriviamo tardi al rifugio e lo troviamo completo. Ci concediamo di alloggiare all’hostal che è accanto. Un letto normale, infilarsi fra le lenzuola è un gran piacere, un lusso. Anche a cena ci trattiamo bene, modifichiamo il menù del dia in prosciutto e melone e un piatto di formaggio e paghiamo la stessa cifra.
Elena vede un capannone con le caprette appena nate: noncurante dell’odore vorrebbe che rimanessi lì a guardarle; io invece vedo una pecora sola soletta in cima alla strada che chiama: bee, bee … che sia la famosa pecorella smarrita…? o forse è un messaggio di identificazione …!
Incontriamo la coppia di pellegrini che erano con noi a Granon, lui il poliglotta molto timido e lei che invece di una fidanzata sembra più una istitutrice. Hanno deciso di dormire all’aperto nello spiazzo davanti alla chiesa. Per la verità sono sorpresa della loro scelta, non credo che la loro disponibilità di denaro sia minore della nostra, comunque non sarei stata pronta a fare come loro. Sarà una questione di età! Pensandoci bene forse si dormirebbe meglio che in certe camerate!

12 giugno 2003

Sveglia alle 5. Notte bella rilassante. È difficile lasciare le lenzuola. Partiamo che è ancora buio, ma siamo dotate di pila. Ci sono degli angolini di cielo sereno, ma tutto intorno a noi è coperto, con nuvoloni scuri e fasci di pioggia. Dietro di noi, all’altezza di S. J. de Ortega si vedono lampi. Sono contenta di non essermi fermata là. Per noi solo qualche goccia. L’abbiamo scampata!
Per Burgos abbiamo progettato spese e commissioni.
Appena arrivate in città, dopo la lunga periferia dove siamo state sorpassate dalle melesecche, abbiamo preso un autobus che ci ha portato nei pressi della cattedrale, abbiamo lasciato gli zaini nel deposito della stazione degli autobus e ci siamo date al turismo. Abbiamo comprato i cappelli di paglia per le mesetas, un k.way, le pellicole, spedito le cartoline e gironzolato per il centro storico.
Nella cattedrale ci sono dei lavori di restauro. Mentre osserviamo un uomo si avvicina per dirci che quella ringhiera non c’era, non è originale e che stanno falsificando tutto: è vero: era necessario pulirla ma non tingerla. Cerchiamo di consolarlo dicendo che è così in tutto il mondo. Alla fine, ci avviamo a riprendere la nostra vita di pellegrine. Passando davanti al rifugio vediamo tante persone che lasceremo indietro, invece Pietro e Massimo vengono con noi.
A Tardajos troviamo le melesecche già sistemate. È chiaro che non sono contente di vederci e poiché con Pietro e Massimo e Vittoria, l’hospitalera, c’è un bel clima di racconti, il divario aumenta. L’edificio è piccolo, è una delle vecchie scuole che sono state adattate a rifugio per i pellegrini, sono posti poco frequentati perché la maggior parte delle persone cercano i luoghi più grandi. Invece a me pare che qui ci sia un rapporto più personale e si riesca a stabilire un dialogo con chi ti accoglie e uno scambio con gli altri pellegrini (le melesecche sono una eccezione).
Vittoria è molto attenta, precisa e corretta nel dare la precedenza a chi arriva a piedi, controlla quello che avviene nelle due camerate, sia per aiutare se uno ha bisogno, ma anche per controllare che non si facciano scorrettezze. È molto religiosa, ha creato il sello con una intenzione precisa. Pietro è bravo a raccontarle le sue speciali esperienze spirituali di non so dove e non so quando. Però il chiacchierone fa contenta anche me quando comincia a parlare dei libri di J.Saramago. Una digressione letteraria ci voleva!

Dopo una bella doccia, mi sistemo sul tavolino davanti all’albergue per scrivere un po’ di diario. Vittoria si avvicina e mi dice che va a messa e che tornerà fra mezz’ora. Se nel frattempo viene qualche pellegrino devo spiegare che siamo al completo e che a due chilometri c’è un altro albergue. Qui può ospitare ancora 5 pellegrini, basta che siano a piedi. La nomina temporanea a vice-ospitalera mi distrae dai ricordi da trascrivere sul diario, perciò accendo una sigaretta e mi rilasso godendomi il paesaggio. Ma appena alzo lo sguardo, ecco proprio di fronte un bellissimo arcobaleno, così non posso fare a meno di salire in camera per prendere la macchina fotografica e far scendere tutti quanti per condividere lo spettacolo.

13 giugno 2003

Quant’è bella la prima meseta!
In questa stagione il colore dominante è il verde con tante sfumature diverse e tutte che si intonano benissimo con il rosso dei papaveri. Chissà se Elena si sarà stancata nel sentirmi dire sempre: guarda là, hai visto che bello quel prato?… e la siepe… e vedi laggiù…? Chissà se il grande piacere che ho provato guardando questi luoghi mi allungherà la vita o mi salverà da qualche malattia o almeno possa riscattare una parte dei miei stravizi, comunque sia, io me ne sono riempita gli occhi e la mente.

Non avevo mai visto dei campi di grano così rossi! Il papavero in sé non mi ha mai entusiasmato così tanto fino a oggi. Questo rosso così acceso ti infonde energia e rende il paesaggio della meseta ancora più unico. La fresca oasi di Sanbol, poi, ci fa veramente credere di essere in mezzo ad un deserto di grano. In questo piccolo rifugio, allietate dal canto gregoriano di un gruppetto di tedeschi, ci siamo rinfrescate i piedi con l’acqua gelata. Non senza un rimprovero dello zelante hospitalero che ci ha fatto notare che stavamo per immergerci nella fonte di acqua potabile, dove in effetti erano state immerse le bottiglie di bibite. Appena in tempo!

Anche se non avessimo voluto arrivare fino a Castrojeriz, ce l’ha imposto il fatto che Hontanas non ci attira e così, dopo la sosta nella piazzetta alla bella fontana, affrontiamo la calura e speriamo di trovare ogni tanto un pochino d’ombra. (illusione!).
Ma se avessimo supposto di vedere al rifugio di Castrojeriz per prima cosa le melesecche…. e pensare che volevamo andare all’altro rifugio!

A Castrojeriz il caldo accumulato mi ha completamente rincitrullito. Non riesco a godermi la doccia, la fame mi è passata e anche la navigazione su internet per leggere i messaggi degli amici è stata lenta e faticosa. Verso sera si alza un po’ di vento, ma è caliente e non dà soddisfazione. Da lontano si vede un temporale e spero che si avvicini o che ci porti almeno un po’ di fresco. Con un po’ di rabbia vedo il nuvolone passarci di lato e sparire. La tanto attesa tempesta non ha fatto altro che spaventare i paesani, che hanno chiuso i bar prima del previsto, negandoci così anche l’ultima bibita fresca della giornata. “Mìra: la tormenta!” ci urla una vecchina che si sta rifugiando a casa, stupita del nostro “coraggio” nel girare in paese con tutto quel vento. Noi torniamo in albergue deluse e assetate, ma divertite da questa insolita reazione.
La serata si conclude con un po’ di chiacchiere con due ragazze di Siviglia, molto simpatiche, che ci fanno superare anche l’orario del silenzio…

14 giugno 2003

Avevamo anche pensato anzi desiderato di passare la notte a Puente Fitero, alla nostra bella Ermita de San Nicolas, ma abbiamo sbagliato il calcolo delle tappe. E pensare che lì ci sono due baldi hospitaleri, belli e bravi, uno dei quali anche di Bologna. Per loro è l’ultimo giorno di volontariato, poi verrà una coppia di Varese e insieme a loro Diana, compagna di tante tappe del camino dell’anno passato. Le lascio un messaggio, anche lei vorrei vedere ma devo continuare la mia strada di pellegrina e loro il loro compito di hospitaleri. Sono affettuosi e gentilissimi, incoraggiano Elena per la sua allergia alle graminacee, in Galizia gli eucalipti le daranno sollievo. Pietro e Massimo hanno dormito lì. Mi piacerebbe che qui fossero loro a descrivere l’accoglienza avuta a S.Nicolas, come l’ hanno raccontata a me.
…. ci sono venuti incontro e hanno preso lo zaino …. la lavanda dei piedi …. la cena … la foglia di basilico che troneggia sul piatto di pasta …. il caffè con la moka …. la cura delle vesciche …
Volevano farmi invidia, invece hanno ottenuto solo di farmi sentire molto fiera di loro. Più tardi, al termine della nostra tappa incontriamo di nuovo i nostri hospitaleri a Fromista che facevano la spesa. Sono un po’ stordita dai 25 chilometri e non li ho riconosciuti subito, avrei voluto sfruttare meglio quella occasione per conoscere qualcosa della loro esperienza.
A Fromista non ci fermiamo ma prendiamo una macchina per fare venti chilometri fino a Carrion de los Condes. Non abbiamo abbastanza tempo e decidiamo per questa tappa perchè il percorso dei pellegrini lo possiamo vedere: è un marciapiede lungo la strada (andandero de peregrinos) segnato dai pilastrini con la conchiglia. Perdiamo l’esperienza di una tappa che era destinata a los soliloquios interiores. Mi rimane però il desiderio di visitare Villalcasar de Sirga: il tempio romanico S. Maria la Blanca, sarà per quella volta che farò il camino in forma turistica.
Carrion de los Condes è già affollato. Nell’albergue del monastero di S.Clara non c’è posto e così siamo costretti a constatare la trascuratezza dell’altro. L’hospitalera, che è la sorella del parroco della chiesa di S.Maria del Camino, si lamenta che non hanno aiuti ma per me non è solo questo il problema. La città presenta tante cose belle, ma purtroppo anche al ristorante non ci siamo trovate bene. Ma cerchiamo soprattutto di riposare che domani ci aspetta la seconda meseta!

La tappa è stata molto pesante, per problemi di allergia e di dolore al ginocchio. Il caldo è stato sopportabile dato che qui ieri si è abbattuta una tempesta, ma l’umore resta pessimo per tutta la giornata. Me ne rammarico per non aver fatto le feste agli hospitaleros italiani, ma le ragioni restano valide: anche la sporcizia di Carrion de los Condes non aiuta certo a rivalutare la giornata. Anzi, posso constatare l’acidità dell’hospitalera, soprannominata “La Rottermaier” dalla zia Laura, l’anno scorso. Non è così, secondo me, che si dovrebbero accogliere dei pellegrini!

15 giugno 2003

Ci aspettano cinque chilometri di strada asfaltata e li percorriamo all’alba, quasi al buio, poi i dodici tutti diritti del camino medievale che ha utilizzato la precedente Via Aquitania. Il pellegrino che ti sorpassa veloce lo vedrai piano piano diventare sempre più piccolo fino a non riuscire più ad individuarlo. Ma non possono essere monotoni quando ci offrono due arcobaleni, una musica di fondo proveniente da tanti uccellini che non si vedono, e poi come non lasciare affiorare l’effetto psicologico della stanchezza e della ripetitività dei passi!

A Ledigos ci fermiamo a rinfrescarci con una bibita fresca al bar. L’albergue è chiuso, ma il barista fa entrare da una porta laterale una ragazza che sembra distrutta e sembra proprio che abbia bisogno di un letto. Gli altri pellegrini aspettano fuori l’apertura regolare.
Deve essere privato, perché si ferma anche un gruppo di signori dotati di Caravan. Uno di loro mi spiega che sono stati in vacanza in Portogallo e che stanno ritornando in Olanda.
Si aggiunge alle chiacchiere un signore anziano che, quando gli dico che sono italiana, ci tiene a sottolineare che lui è più vecchio del Papa.
Mi chiede se andiamo a Sahagùn perché quella sera c’è la fiesta! “Te gustas los toros?”mi chiede ed io rispondo che mi fanno paura. Forse non capisce la parola “paura” ed io non riesco a tradurgliela, allora rivolge la stessa domanda ad un pellegrino brasiliano, che risponde “no puedo opinar”, spiegando che in Brasile non ci sono feste con i tori. Che diplomazia!

Terradillos De Templarios. Siamo circa a metà camino!
Non ci dispiace trovare un albergue privato per 7 euro e lenzuola sui letti e pranzo e cena già fatto e, per noi, forse in simpatia con l’hospitalera, una camera a soli quattro letti che divideremo con una coppia che poco avevano di pellegrino e molto più di scappatella.
Riposiamo quindi molto e bene e ci vuole perché Elena ha male sotto la pianta del piede. Qua due Pellegrini tedeschi di mezza età, i Tontoloni, entrano a far parte del nostro cammino. L’inizio non è proprio carino; ancora ridiamo pensando agli sforzi della hospitalera per farsi capire sull’orario del pranzo, mentre loro rimangono immobili senza fare il minimo cenno. Sempre immobili a Sahagùn di fronte all’albergue quando noi chiediamo se è aperto o chiuso.
Li ritroveremo con qualche piccola variazione in quasi tutte le tappe e saremo anche nello stesso Hostal a Santiago. Abbiamo la foto e l’indirizzo. Non è che sia nata una amicizia, ma è stata una presenza che a volte non è mancata di premure, per quanto ci sia stato sempre l’imbarazzo di non riuscire a comunicare.

16 giugno 2003

Siamo partite alle 5.30. Mamma mi ha svegliato alle 5 mentre sognavo. Ieri sera ho fatto fatica ad addormentarmi per il dolore ai piedi. Partiamo dopo due pellegrine che spariscono davanti a noi in un lampo. La luna è ancora alta e il cielo stellato. L’aria è freschina. Comincio a camminare a fatica. Dopo pochi chilometri raggiungiamo Moratinos ed io sto praticamente rantolando. La strada è buona, costeggia la statale, ma le fitte ai piedi sono sempre più forti. All’altezza di San Nicolàs mi fermo e tolgo i pezzi di cotone che avevo messo sotto i talloni. È stata una pessima idea. Prendo anche una pasticca di antistaminico perché comincio ad avere una crisi di starnuti. Da lì in poi almeno una mezz’oretta di rantolamento, zoppicamento, vittimismo, crisi isterica tipica cancerina. Tutte le sfighe del mondo in quel momento le ho io. Quando mamma mi chiede se voglio che troviamo un passaggio, le dico un “no!” secco e cerco di reagire. Fanculo il male ai piedi, tanto anche se non cammino fanno male lo stesso. Tanto vale accelerare. E così, dai e dai, l’umore cambia e arriviamo finalmente a Sahagùn.
Mamma riesce a farsi fare una fotocopia della credenziale dall’impiegato del Comune. Ne avremo bisogno, dato che lo spazio si sta esaurendo. Io spero di non usarla, perché vorrei farmene dare una nuova, spagnola. Magari a Leòn, dove molto pellegrini cominciano il camino.
Bercianos ci attende: impossibile non scegliere di fermarsi dopo l’accoglienza avuta a Tosantos. Troviamo un rifugio di stile parrocchiale e i volontari francesi ci riconoscono.
Il luogo non è ancora del tutto sistemato, ma è accogliente. Non conosciamo nessuno dei pellegrini a causa del salto che abbiamo fatto a Fromista, a parte Fernando che a volte cammina di meno per poi far delle tirate, ma a tavola, dopo un piccolo gesto di benedizione, sembriamo una grande famiglia. In quel momento entra un uomo e sembra più un barbone che un pellegrino, ma soprattutto nessuno se lo aspettava e c’è un attimo di perplessità. Non per l’hospitalero però che, sicuro, gli va incontro dicendo: da dove vieni? che lingua parli? gli dà il suo posto a tavola e tutto va avanti tranquillamente, come prima.
Nel paese non c’è la chiesa perché è crollata ed è in progetto la ricostruzione, e neanche l’albergue ha un luogo dove potersi raccogliere un attimo dopo cena per la rituale piccola orazione; ci riuniamo nel prato dietro la casa rivolti verso occidente, verso Santiago e il sole sta tramontando. Al mattino dopo facciamo colazione assieme, poi non sappiamo come salutare i nostri hospitleri.
Loro lo sentono, ogni giorno è così, ogni giorno non si possono commuovere e si preparano ad accogliere nuovi pellegrini, anche noi ogni giorno dobbiamo pensare al camino che ci aspetta e a vivere i nuovi incontri. Ho riflettuto sul mio progetto di fare una esperienza di hospitalera: non credo di essere in grado di sostenere tutte le cose che ne fanno parte.

17 giugno 2003

Arriviamo al El Burgo Ranero dopo otto chilometri. Riusciamo a prendere il sello perché la porta del dell’albergue è aperta. Siamo in dubbio se cercare un aiuto per proseguire, un po’ perché Elena ha male ad un ginocchio e un po’ perché vorremmo avere più tempo da dedicare alla visita della famosa cattedrale a Leòn.
Passiamo dalla stazione per avere un’idea e l’unico treno per Leòn passa dopo cinque minuti. Il dubbio è risolto, anzi lo abbiamo preso come un segno.
Mansilla de las Mulas mi aspetterà fino al prossimo viaggio.
La Visita alla Cattedrale, al suo chiostro, al museo non poteva essere più gratificante. E un altro segno mi è sembrato quello di trovare nel museo due dipinti di S. Cosma e S. Damiano, dei quali mio padre ha sempre avuto grande interesse. Non si possono fare fotografie nel museo, ma sono stampati sul biglietto d’ingresso.

Leòn è bellissima e per fortuna riusciamo a visitarla con calma. Resto affascinata dalle fantastiche vetrate della cattedrale. Tanti turisti scattano foto, nonostante il divieto. Io spero di trovare delle cartoline che le rendano onore, ma invano.
Anche in una città così grande, piena di piccioni, le cicogne si riservano gli spazi più alti delle chiese per costruire il loro enorme nido. Nel cortile dell’albergue ne troviamo tante. Invidio un po’ un giovane pellegrino che ha una macchina fotografica professionale con uno zoom enorme. Chissà che belle foto che avrà fatto.
Purtroppo la sera non possiamo partecipare alla messa con la benedizione del pellegrino. L’hospitalera ce lo comunica dispiaciuta, dicendo che le monache non le hanno spiegato il motivo. Un vero peccato!
Anche la certezza di una nuova credenziale svanisce quando mi vedo offrire dall’hospitalera dei fogli fotocopiati, come i nostri.

18 giugno 2003

Come decidere la tappa dopo Leòn? Villar De Mazarife a sinistra, più lunga ma fra i campi, o Villadangos del Paramo a destra, a fianco della statale ma il vero tratto del camino. Decidiamo per la prima ma temiamo di non trovare il punto della deviazione e chiediamo ad un pellegrino «Mazarife?» Lui risponde serio «Io, vado a Santiago» !!!

Abbiamo sicuramente scelto bene, perché ci ritroviamo su un percorso molto brullo, un po’ in salita, ma molto solitario e sicuramente lontano dal traffico. E poi per nulla al mondo ci saremmo perse il passaggio per Oncina De La Valdoncina, un paesino dove non c’è niente, ma basta il nome per farti venire il buon’umore!

Dopo 20 km, a Mazarife ci riposiamo nell’albergue che troviamo aperto ma vuoto e dove tutti quelli che arrivano dopo ci prendono per le hospitalere. È un luogo piuttosto essenziale ma c’è tutto quello che serve e mentre riposo sotto la tettoia mi incanto a guardare i movimenti dei pellegrini.
Arriva l’hospitalero, un ragazzo cordiale e dopo aver organizzato, torna via. Fa molto caldo e quasi tutti presto dormono e anche io mi distendo sul divano sotto la tettoia. Elena scrive i suoi appunti di viaggio. Il primo ad alzarsi dalla siesta è Nicolàs che prende una bacinella con dell’acqua, la condisce con olio e sale e poi ci mette i piedi a bagno e intanto spiega, prima ancora di avere delle domande, che in questo modo i suoi piedi sono perfetti e che cammina molto e bene.
Alle quattro e mezzo ci rimettiamo in cammino e ci accorgiamo che dobbiamo fare ben 13 km; partiamo disapprovati dal gruppo. Il sole picchia forte e sfruttiamo la più piccola ombra.


Mancano pochi chilometri alla meta e siamo molto stanche ma quando vedo un gruppetto di mucche al pascolo nel campo a fianco della strada, dico alla mamma che c’è una mucca proprio lì vicino al filo spinato sdraiata sotto l’ombra di un albero che mi fissa. La voglio salutare e comincio a farle i complimenti e lei apprezza sventolando le orecchie (o forse scaccia le mosche?). Ma da lontano si alza un’altra mucca, tutta nera, anche lei era in siesta all’ombra e comincia a fissarmi con aria minacciosa. Chiedo alla mia amica se è per caso un toro, perché le corna non le vedo; l’atteggiamento sembra ostile e non ricevo risposta, così le dico che si è fatto tardi e che devo andare. Ci salutiamo con una sventolatina di orecchia.
Raggiungo la mamma che sta attraversando un binario ed io le dico di fermarcisi sopra, così le faccio una foto. Lei sorride e mi dice “Perché non la faccio io a te?”
Penso se non sia il caso di appoggiare l’orecchio alla sbarra di ferro per sentire se arriva un treno, ma la stanchezza vince sul gioco e così ripartiamo senza perdere ulteriore tempo.
A Hospital de Orbigo non riesco a godermi il bellissimo ponte e infatti anche la foto che scatto è proprio brutta. L’hospitalero però ci acccoglie con gran calore (questo ben accetto) e un regalo che mi fa svanire tutta la stanchezza: quando vede che la mia credenziale non ha più spazio per il sello, mi offre una nuova credenziale spagnola. Sono quasi commossa. Mamma ringrazia da parte mia con una generosa donazione.

19 giugno 2003

Ad Astorga trovo lo stesso ospitalero dell’anno passato. Sembra contento di sentirmelo dire. Ricordo il suo commento sul pellegrinaggio con una sorella come una prova interessante. Questo anno sono con mia figlia, ancora meglio, dice. Prova a dirmi le regole dell’albergue ma poi dice: lei sa già tutto. Sì, ricordo anche che alle sei del mattino c’è la sveglia con una musichetta. Questo anno si fa alle sei e mezzo.
Purtroppo per me la sveglia non sarà necessaria: un pellegrino ha tenuto tutta notte alto il registro del suo russare e io e il corteggiatore di Elena non abbiamo dormito affatto.

Oggi la tappa è stata corta, solo 17 km, ma abbiamo fatto il tempo a prenderci un po’ di caldo lo stesso. Il tragitto è bello, in mezzo alla campagna. Incontriamo qualche fattoria ed ho così l’occasione di salutare un bellissimo vitellino che ad ogni mio complimento sventola le piccole orecchie e lecca le sbarre che ci dividono. Sono tentata di avvicinarmi ed accarezzarlo, ma non sono sicura se i vitellini hanno già i denti forti. Decido di risparmiarmi i “ditini”.
Ormai siamo quasi arrivate ad Astorga, stiamo attraversando la periferia. Il percorso ci risparmia la statale, ma ci fa passare dietro enormi fabbriche e non è che sia molto meglio. Sopra un piccolo ponte, però, mi volto ad osservare il ruscello e vedo laggiù in fondo, davanti ad una casa, una presenza: “Mamma, guarda, c’è un leone!”, urlo, e decido di scattare una foto. Il tempo di un click e sento subito l’abbaiare cattivo di un cane. Il mio leone resta tranquillo, mentre il suo amico a fianco è molto arrabbiato. Devo averli svegliati. Per fortuna sono entrambi legati!
L’albergue di Astorga apre alle 13, ma alle 11.30 quando arriviamo l’hospitalero ci accoglie con un sorriso: siamo praticamente le prime! Quando vede la mia credenziale si scurisce in volto e mi chiede chi me l’ha data. Vorrei mettermi a piangere. Perché? Non va bene?
Mi spiega che la credenziale spagnola ufficiale ha una diversa intestazione e che l’hospitalero di Hospital de Orbigo probabilmente non è molto pratico. Ne tira fuori una ufficiale e me la sostituisce. Io rincomincio a respirare.
Vado a cercare l’Internet Point, anzi il Cyber, come lo chiamano qui. Purtroppo, però all’albergue non trovo nessuna piantina e così mi metto a cercare per il centro. Non dev’essere lontano dalla cattedrale. Ad un certo punto vedo venirmi incontro un poliziotto. Colgo l’occasione al volo: lui mi scuserà se non parlo uno spagnolo corretto. Mi dice di seguirlo e mentre lo “rincorro” una signora lo chiama. Lui si ferma e risponde che arriva subito, deve solo dare un’indicazione a questa chica e poi arriva. Sentirmi chiamare “chica” da un poliziotto in uniforme mi ha dato la sensazione come di … facente parte della comunità. Bello! Imbarazzata e presa alla sprovvista dal suo saluto frettoloso, mi sono confusa e così per ringraziarlo ho risposto con un bel “Gracias Millas”!

20 giugno 2003

A El Ganso troviamo un bar molto particolare, tutto arredato stile western. Che cosa strana per un locale che si trova lungo il camino di Santiago! Ci sediamo nei tavolini fuori e facciamo colazione con un’ottima tortilla. Ci raggiungono anche gli antipatici di Pamplona.
Mentre ci stiamo preparando per ripartire, arriva un pellegrino tedesco, già notato nell’albergue di Astorga per i capelli rossi rossi, il suo sorriso molto gentile e soprattutto per le inseparabili bretelle (tra un po’ le teneva anche a letto!). Si avvicina e mi dice tutto serio una frase in tedesco. Dico che non capisco. Prova a dire qualche parola in inglese. Nomina Astorga, l’albergue, e indica proprio me! Che cosa avrò mai fatto ad Astorga? Ho russato? Ma perché è così preoccupato? Capisce che non ci intendiamo, allora tira fuori il suo coltellino (oh, oh…) ed estrae delle minuscole pinzette. Le schiaccia per farmele vedere bene, mi indica e poi fa il cenno indietro, ripetendo Astorga. Aaaah: ho lasciato le mie pinzette in albergue!
Ma pensa! Che carino! Lo ringrazio e gli dico che vabbè, le ho dimenticate, ma non c’è problema. Lui alza gli occhi come per ricordare una parola e mi dice: “oro!”. Si, è vero, le mie pinzette erano di colore oro, ma lo rassicuro: “no real oro!”, “no gold!” Comincia a tranquillizzarsi e a quel punto si siede e ordina una bella birra fresca, finalmente rilassato.
Abbiamo già gli zaini in spalle ed arrivano i Tontoloni: anche loro un bel discorso in tedesco fitto fitto per dirmi che ho lasciato le pinzette ad Astorga (il gesto delle dita a mò di pinzetta traduce chiaramente il loro discorso). “Si, si, lo so, no problem, no problem, muchas gracias!”, continuo a ripetere e dico alla mamma di affrettarsi per non incappare in altri pellegrini preoccupati.
Camminando sorridiamo compiaciute della gentilezza di questi pellegrini tedeschi. Ma… quanto costeranno un paio di pinzette in Germania?

Lo stile e l ‘ambiente che si vive all’arrivo di un albergue ogni giorno può essere molto diverso. A Rabanal del Camino il rifugio El Gaucelmo è tenuto da volontari della confraternita inglese di S. Giacomo. Qui ci sono due hospitalere che ti salutano dicendo il loro nome: Maddalena prende i dati, Cristina accompagna alla camera e assegna il letto: a chi intende partire al mattino prima delle sei in un settore, gli altri nella parte centrale. A me, sicuramente valutata la più vecchia di quella giornata, danno la stanza con soli quattro posti letto e gli altri due non verranno occupati, ed Elena una volta tanto gode il privilegio di essere con la mamma. Il rifugio ha aperto solo alle due ma da allora in poi l’attenzione e la presenza di queste due giovani volontarie è perfetta.
Domando loro se conoscono il musical Jesus Christ Superstar e il bellissimo brano di Maddalena: Maddalena non lo conosce (è giovane) invece Cristina me lo accenna e canta anche benissimo. Il rifugio è bello, la cucina ordinata e pulitissima è fornita di tante cose per i pellegrini.

In albergue conosciamo due sorelle giapponesi. Sembrano stanche morte, anche dopo la doccia e girano di qua e di là, controllando i panni stesi ad asciugare. Cogliamo l’occasione per conoscerle, parlando un timido inglese. Fanno tappe brevi perché camminano lentamente ed evidentemente non sono molto allenate. Riusciamo a dire loro che abbiamo una giapponese in famiglia, anche se in realtà ora la grande famiglia ora è proprio questa: tutti noi pellegrini!
Le poche informazioni scambiate vengono compensate da lunghi e sinceri sorrisi.

21 giugno 2003

La strada per la Cruz de Hierro si alterna fra sentieri pieni di ginestre e tratti di asfalto. Nell’ultimo tratto siamo infastidite dalle mosche che ci vengono addosso come se fossimo il cruscotto di una macchina e siccome non rimangono appiccicate, ci ronzano attorno.
E’ infastidita anche una signora che è avanti e indietro a noi in una alternanza di tranquilli sorpassi. Lei ha un passo non veloce ma costante e molto costante direi perché viene da Le Puy.
Alla Cruz de Hierro arrivano i Tontoloni e si fanno fotografare. Arriva anche un pellegrino, lo conosciamo come ‘quello della Galizia‘: desidera fare una foto con le due piccole italiane, allora lo vogliono anche i Tontoloni.

Mi faccio fare una foto accanto alla Cruz de Hierro e ne approfitto per lasciare la mia boccetta, ancora mezza piena, di Ribes Nigrum, esprimendo il desiderio di lasciare lì, come ricordo, la mia allergia alle graminacee. Speriamo che gradisca il regalo…
A Manjarin incontro un gruppetto di mucche al pascolo: ci sono due vitellini fantastici. Il tempo di fare qualche foto e la mamma mucca comincia a guardarmi male lanciandomi dei “mu” minacciosi. Ochei, ochei, me ne vado.
Mamma entra nel rifugio e ne esce con una piccola zucca come regalo. Che bello! Adesso mi sento una vera pellegrina anch’io.
Nel frattempo la aspetto di fronte alla famosa insegna con l’indicazione delle distanze: Santiago 222 km. Ma come? Nell’albergue di Rabanal c’era scritto Santiago 218 km! Insomma, bisognerà che si mettano d’accordo!

Nel bar di El Acebo un ciclista-pellegrino mi offre il suo bicchiere e insiste perché assaggi il sidro e dice che è un‘ottima bevanda per chi cammina. Allora mi provoca e finisco per dire quello che ho sempre pensato sui ciclisti sul camino. In effetti è simpatico e precisa che lui il cammino lo ha fatto più volte e anche in compagnia di amici italiani. Finiamo per parlare di Berlusconi. Anche per lui mentre si allontana sentiamo come una piccola perdita, eppure ogni giorno sappiamo che quelle persone che in quel momento ci sembrano così vicine nella fatica, nella scelta, non le vedremo più.
Lo vedo con il suo amico fermarsi vicino al cimitero dove è ricordato un pellegrino ciclista morto per un incidente.

A Riego de Ambros entriamo nell’albergue per riposarci un attimo e farci mettere il sello. Dentro c’è solo un ragazzo che ci guarda ma non ci considera. Prendiamo qualcosa di fresco nella macchinetta e solo quando mi avvicino per mettermi il sello, capisco che è l’hospitalero.
L’albergue è molto bello, ha solo due anni.
Quando usciamo, mi fermo alla fontana per rinfrescarmi il viso. Mi aiuta il tedesco con le bretelle, che mi tiene schiacciato il pulsante mentre io tengo le mani a mò di bacinella. Purtropp0, il getto è violento e il risultato è che alla fine siamo entrambi fradici, mentre il viso è ancora asciutto. Per fortuna il sole picchia. Scoprirò poi che il mio amico si chiama Rudolph e che ha già fatto il camino ben 5 volte. In effetti sembra molto esperto e la bretella ne è una conferma!

A Molinaseca sosta per aspettare che sia meno caldo. Arrivano le due pellegrine giapponesi.
Ed ecco la sgradita sorpresa: i miei sandali sono rotti e siamo di sabato. Chiedo al pellegrino della Galizia se è possibile che a Ponferrada i negozi siano aperti.” Seguro que sì.” Sarà necessario prendere un taxì per arrivare prima della chiusura. Appena salita sul taxi apprendo che i negozi sono chiusi. Cercheremo del mastice in un supermercato e infatti poi Elena sistemerà i miei preziosi sandali.

Il saluto con le due sorelle giapponesi sembra l’addio di due fidanzati: arriva il taxi, salutiamo con un cenno della mano e le vediamo sbracciarsi, seguirci con lo sguardo mentre il taxi si allontana. Non mi perdonerò mai di non aver scattato loro una foto!

Cosa c’è di particolare a Ponferrada? Nel cortile dell’albergue, a fianco dell’edificio c’è una scultura di legno dove lavorano i pellegrini. La traccia del lavoro è fatta da uno scultore che è presente e che, se necessario, interviene.
C’è poi la chiesetta, il piazzale, le camerate per le comitive e per i pellegrini piccole stanze di soli sei o otto posti, il luogo non in vista per stendere i panni e le biciclette si posteggiano dietro il muretto. Insomma, tutto è bello, ordinato e nuovo, non manca niente per il confort e la cucina è molto frequentata. C’è anche una volontaria che cura i piedi.

Davanti a lei c’è una lunga fila di pellegrini che si fa sistemare le vesciche. Lei lancia dei sorrisi smaglianti ma quando prende il piede fra le mani si trasforma: controlla seria la situazione, apre la sua borsa medica e con grande professionalità estrae aghi, disinfettante e cotone. In un attimo il piede è sistemato e sul suo viso ritorna lo splendido sorriso. E’ raro vedere lo stesso nel pellegrino che si allontana con una espressione mista tra la riconoscenza e l’enorme sofferenza.
Non so se è il caso di farle vedere la mia piccola vescica. Non mi dà molta noia, ma preferirei curarla in tempo. Consulto il dizionario tascabile della mamma e cerco come si dice “consiglio”. L’intenzione è quella di non andare sotto i ferri, ma di chiedere solamente cosa devo fare. La sua risposta è rapida: allunga le mani e mi afferra il piede. Mi guarda sorridente e mi chiede se sono una donna “fuerte”, mentre con una mano apre la sua valigetta. Con la voce tremante rispondo di sì e mi volto come quando vado a fare le analisi del sangue. Se non guardi, non sai quando arriverà il dolore dell’ago. “Vale!” Il piede è sistemato. Non credevo di essere così fuerte: non ho sentito proprio niente.
Dispiaciute per non aver fatto in tempo a dare il nostro contributo alla scultura di legno, io e la mamma aiutiamo a pulire il terreno dalle scaglie di legno. Si avvicina un ragazzo per ammirare l’opera e la mamma gli chiede se ha partecipato anche lui al lavoro: la sua risposta è fantastica: “Yo soy andalin!”

22 giugno 2003

A Villafranca del Bierzo ritroviamo Lula, una ragazza irlandese che a Ponferrada stava nel letto sopra al mio. E’ un bel personaggio ma parla molto veloce e con un accento strano e purtroppo io la capisco sempre quando ormai non serve più.

Facendo un piccolo tratto insieme le chiedo da dove viene: Irlanda! E pensare che credevo fosse americana. Non si capisce proprio niente quando parla! Lei mi chiede se sono francese e io mi stizzisco. Ancora ed è l’ennesima volta che mi scambiano per una francese e questa cosa proprio non mi va giù. Sarà che lungo il cammino di francesi svegli e simpatici ne abbiamo incontrati proprio pochi!

Ci fermiamo nel rifugio vicino alla chiesa. Il luogo è un po’ spartano anche con dei lavori di mantenimento mentre l’albergue municipale è grande, bello e nuovo. Lula si ferma al primo e dice: è sufficiente. Anche per lei, nel salutarla, avvertiamo una piccola perdita.
C’è un gruppo di turisti italiani che con la guida ammirano il portale della chiesa di Santiago. Ricordo e penso alla mia visita dell’anno prima, quando una signora si stacca dal gruppo e viene verso di me. Mi chiede se sono una pellegrina e perché e come si fa ad esserlo, poi quasi si scusa di essere solo una turista e mi fa i complimenti e ritorna al suo gruppo che se ne stava andando giù per la discesa. Proprio per quella discesa e chissà che sia stato per meritarmi quei complimenti, o forse solo per il caldo e anche potrebbe essere, come avrebbero detto Pietro e Massimo (chissà dove sono finiti quei due) che il corpo si ricorda, ho accusato dolori al piede destro e mi sono trovata a zoppicare proprio come l’anno precedente negli stessi luoghi.
Per arrivare a Pereje devo fermarmi a riposare ogni chilometro.
E chi troviamo a Pereje? I Tontoloni. Li vediamo appena entrati nella camera al pian terreno. Anche loro sembrano sorpresi. Io faccio l’ultima fatica di fare la scala perché la camera di sopra è più bella e c’è anche un salotto con tavoli, riviste e televisione. Sono sei euro ben spesi e anche i sette della cena. L’hospitalera è un po’ freddina e seria ma si mostra contenta quando le dico che c’ero anche un anno fa.

Nel giardino c’è un bel lavatoio, che però è completamente vuoto e pieno di api. Spero che non sia pericoloso. Ci metto un po’ per capire che per far uscire l’acqua dal tubo devo schiacciare un pulsante che si trova proprio sotto i miei piedi. Che cosa strana! Lavo i panni alla bell’è meglio, un po’ per non sprecare acqua, un po’ perché ho paura di disturbare le api che per ora si lasciano innaffiare tranquille.
Ad un certo punto arrivano tre ciclisti e si fermano lungo la strada, davanti all’entrata dell’albergue. Uno di loro mi urla qualcosa. Mi hanno scambiata per l’hospitalera e mi chiedono se possono prendere da bere. Rispondo che non sono l’hospitalera e che non so se sia potabile l’acqua del lavatoio. Intanto si avvicinano. Sento il signore spagnolo che risponde, come fra sé e sé, “sì, sì, potabile!”. Vengono a riempire le borracce e intanto mi chiedono se sono inglese? Francese? spagnola? Quando rispondo italiana, mi fanno delle gran feste. Chiedo loro se stanno andando a O Cebreiro. Stanno tornando indietro da Santiago. Tornano in Germania. Si rimettono sulla statale, passando direttamente dal giardino, con la bici in spalla (comodo!). Salutandoli mi viene in mente che la mamma racconta che l’anno scorso al ritorno da Santiago dal pulman aveva visto i pellegrini al lavatoio e si era commossa. E’ vero: dev’essere stata proprio una emozione.

23 giugno 2003

Il primo tratto è ancora lungo la statale. L’unica consolazione è che, come ieri, il nostro percorso è protetto da una continua fila di divisori in cemento. La coppia di spagnoli delle Canarie ci precede, ma ad ogni incrocio li vediamo aspettarci. Non credo sia per gentilezza, quanto più per essere sicuri di prendere la strada giusta.

A Vega de Valcarce facciamo una sostanziosa colazione, con pane formaggio e prosciutto. Non so come, ma ho una fame da lupi. Meglio così, dato che ci aspetta una bella sfacchinata. Mamma per fortuna ha deciso di farsi portare lo zaino in macchina fino a O Cebreiro, così può camminare sforzando meno la caviglia. Anche Carmen, la spagnola delle Canarie ha fatto la stessa scelta: anni fa si è rotta una caviglia e sul camino ora si fa sentire.
Cerchiamo sollievo al caldo alla fontana di La Faba ma arrivano le pecore a rubarci il posto. Elena può finalmente divertirsi a fotografarle da vicino.
Ma quanto manca e dov’è questo O Cebreiro?! In lontananza si vede una figura vicino ad una nuvola bianca, vuoi vedere che è un pellegrino! Infatti, dopo poco anche noi passiamo dal bagno di sudore al bagno di nebbia. Peccato, non ci potranno vedere da casa!

Il paesaggio si fa sempre più montano. La guida dice che O’ Cebreiro non si vede, ma si “intuisce”. Finalmente si intravede l’ultimo paese. Ci rinfreschiamo alla fonte ma veniamo circondate da un branco di pecore che prendono il nostro posto e ci costringono ad allontanarci. Però scatto loro una bella foto. I due pellegrini che erano con noi alla fonte proseguono e spariscono all’orizzonte. Riprendiamo la strada, che va proprio verso la nuvola. Scatto una foto per i bellissimi giochi di luce e ombra. Sarà difficile che renda l’idea…
Entriamo nella nuvola: c’è un gran vento e forte umidità. La strada gira tutt’intorno al monte. Il vento umido ci ghiaccia addosso la maglietta ancora bagnata di sudore: si muore dal freddo. Chi l’avrebbe mai detto?
A O Cebreiro il nuvolone è fitto fitto. Non si vede proprio niente. Tantomeno mi possono vedere gli amici che sono su internet sulla web-cam. Provo a descrivere il mio abbigliamento e mi metto a mo’ di statuina con le braccia alzate, ma immagino che sia un vero problema riuscire a distinguermi.
In più ci si mette anche la cima di un albero a coprire in parte la visuale. Per fortuna sono la sola lì davanti. In effetti i pellegrini che passano stravolti per entrare in albergue mi guardano increduli.

Pranziamo e ci riposiamo. Vado all’albergue a prendere il sello e trovo Carmen, Nicolàs e tanti altri tutti stanchi e infreddoliti. Faccio una gran figura dicendo che proseguo anche se è solo per pochi chilometri fino a Hospital della Contesa. Speriamo di uscire dalla nuvola. Invece di trovare il tempo migliore troviamo l’albergue allagato. Bisogna aspettare fuori mentre che gli idraulici riparano il guasto. I Tontoloni sono bloccati nella camerata.
Ma c’è anche un altro problema, non ci sono né bar nè negozi e anche i contadini non hanno niente da venderci. Alla fine, vediamo partire tre baldi giovani (di nazionalità diverse) verso O Cebreiro a fare la spesa, e poi preparano la cena per tutti. C’è un po’ di imbarazzo perché non c’era stata una comunicazione chiara; comunque, si mangia e dopo il clima è più disteso. Un ragazzo francese mentre riordiniamo la cucina mi canta le canzoni di J.Brel. e poi: O when the saints, to Santiago’.
I Tontoloni hanno cenato per conto loro. Hanno un contenitore misterioso. Hanno provato a insegnarmi i giorni della settimana in tedesco solo per dirmi in quale giorno pensano di arrivare a Santiago. Uno di loro mi ha detto di essere in pensione, mentre la moglie è a casa che lavora (e fa una gran risata). Per quanto sia la terza volta che fa il camino una parola di spagnolo non sa dirla.

24 giugno 2003

Siamo arrivate a Calvor con le nostre gambe, nonostante il mio piede a volte dolorante a volte no e soprattutto nonostante le previsioni che avevamo fatto al mattino. Durante la notte avevamo sentito fischiare un vento forte e al mattino c’era una nebbia fitta e sembrava dovesse arrivare da un momento all’altro una tempesta.
I Tontoloni mettendosi in cammino dicono di aspettarci a Sarria, … ma noi siamo titubanti … magari cammineremo sulla strada asfaltata invece di avventurarci nei sentieri con quella nebbia anche se così si allunga di cinque chilometri … invece la giornata piano piano si rimette. Durante il percorso ricordo dei particolari molto precisi vissuti l’anno passato. Rivedo il prato in cui era seduto il pellegrino australiano. Riconosco un bar e mi ricordo i discorsi fatti il quel momento, ho addirittura nostalgia di quelle persone.
A Triacastela facciamo un po’ di spesa perché a Calvor non c’è niente e poi prima di rimetterci in cammino Elena beve una birra e io mi concedo un Martini. “! Por camminar! “mi dice la barista. Riprendiamo la strada e assistiamo ad un rientro dal pascolo delle mucche vigilato da un cane. Una mucca un po’ distratta e non seguiva correttamente il gruppo e il cane prima ha abbaiato, poi l ‘ha inseguita e infine ha cercato di morderla nelle zampe. La mucca cercava di scansare il morso ma provava anche a calciare: la lotta è stata rapida ma buffa e la mucca è rientrata nella stalla sconfitta.
E finalmente nel pomeriggio arriviamo a Calvor. Dopo aver fatto la doccia, ho proprio bisogno di riposare ma vedo un ragazzo fare un esercizio yoga, e la voce del sangue si fa sentire. Cominciamo a parlare delle nostre esperienze (Elena non c’è a farmi da calmiere), altri intorno si interessano. Vorrei accennare qualche posizione che io preferisco, ma il corpo è troppo rigido dalla stanchezza.
Pochi giorni dopo siamo gli stessi a Melide, in fila per utilizzare la lavatrice. Per ingannare l’attesa accenno scherzando ad una posizione yoga e poiché tutti si fanno molto attenti, mi concentro e la faccio: mi viene perfetta! Tutti apprezzano la dimostrazione e sono contenta di essermi un po’ riscattata, con quel piede zoppicante, con il modo di camminare poco veloce e, perché no, anche perché sono la più vecchia.

25 giugno 2003

Poco prima di arrivare a Brea, dove c’è il famoso cippo dei 100 km, mi fermo a salutare una mucca al pascolo che si trova proprio vicino al sentiero. Mi passa accanto Nicolàs, come un fulmine e mi dice “una vaca de leche!” ed io, col mio spagnolo ormai sicuro, rispondo “Se nota!”.
La vaca de leche si avvicina ad un piccolo stagno dove una ranocchia sta gracchiando a squarciagola. Avvicina il muso verso l’acqua ed io grido “No!”. La mucca mi guarda per un breve istante, giusto in tempo per far scappare la malcapitata ranocchia. Posso riprendere a camminare tranquilla…
A Brea rinunciamo alla foto col famoso paletto degli ultimi 100 km, perché è pieno di scritte e scarabocchi. Un vero peccato! Ci consoliamo con una colazione a base di pane tostato e olio e una bottiglietta di sidro, che scopro non piacermi.


A Portomarìn non mi volevo fermare. E infatti, ci siamo solo riposati poi alle cinque io ho preso un taxi fino a Gonzar e Elena si è fatto quel tratto da sola. A Gonzar appena scesa dalla macchina uno dei Tontoloni mi viene incontro dicendo: « Komplet !» e invitandomi ad andare cercare alloggio al posto successivo. Ma io devo aspettare Elena e poi è tardi e quindi cerco di risolvere li. Nel privato non c’è niente, l’hospitalera non collabora, anzi sa benissimo che un gruppo di persone hanno la macchina al seguito.
Nicolàs mi trova mentre mi ritaglio un angolino sul pavimento della camerata e mi propone di spostarmi in una specie di garage dove è andato lui. Intanto ceniamo all’aria aperta e scrutiamo il cielo: potrebbe piovere. Andando in cucina per gettare i rifiuti la troviamo vuota. Le persone che prima vi avevano preso posto sono andate via. Ci sistemiamo in terra in un angolo, un altro pellegrino sui due tavoli riuniti. La notte passa, per me non è tanto più brutta di molte altre.
Al mattino ci alziamo presto. Arriva dal piano di sopra una pellegrina che ha dormito in un letto normale a farci fretta di sgomberare perché lei deve fare colazione. Si siede, assieme al suo compagno, in un angolo e mangiano la tortina facendo delle piccole fettine. Ci asteniamo dal discutere, ma il nostro compagno è molto teso. Dall’altra stanza un italiano brontola a voce alta: è meglio che lo chiudano questo cammino piuttosto che gestirlo così.

26 giugno 2003

In questo tratto abbiamo incontrato due ragazze di Padova, con le quali abbiamo fatto un po’ di strada. E così anche loro hanno potuto vedere la scena d’amore fra Elena e un asinello che era vicino al nostro sentiero. Elena lo chiama, l’asinello si avvicina e poi lei prende un ramo per poterlo accarezzare e poi gli scaccia le mosche che aveva sotto l’occhio destro e poi si accorge che lì aveva una ferita ……. le faccio una foto ricordo e poi … si devono lasciare.
Il suo pellegrinaggio è stato un vero incontro con la natura. Le mucche, i vitellini, le pecore, i cavalli, i muli (prima di O Cebreiro), le cicogne, gli uccellini (soprattutto quelli nelle mesetas) le papere che ha fotografato per Costanza, e se poi passiamo al mondo vegetale l’elenco diventa lunghissimo.
A Melide ancora abbiamo la sensazione di un albergue trascurato. L’ambiente sarebbe grande e ben attrezzato ma manca proprio la presenza di una organizzazione efficace. Come non notare la differenza con altri posti tenuti da volontari che sono stati a loro volta pellegrini!
Siamo partiti prima dell’alba, poi il cielo comincia a diventare più luminoso. Nei pressi di una fontana ci sorpassano due pellegrini uno con una maglietta grigia a righine che nel pomeriggio vedo sempre stesa ad asciugare. Salutano molto corretti, un po’ freddi, molto presi dal loro andare preciso e veloce.
Li vediamo andare avanti mentre noi per guardare la fontana ci accorgiamo che dietro di noi sta spuntando il sole e c’è un gioco di luci e colori bellissimo. Allora li chiamo e insisto perché non sentono. Alla fine, si voltano. Lo spettacolo è proprio di fronte a loro, ma non lo vedono e mi guardano con aria interrogativa. Io indico, parlo in italiano, gesticolo e loro girano lo sguardo sulla fontana, sul viottolo da dove eravamo arrivati poi alzano lo sguardo e vedono… allora manifestano compiacimento, scattano una foto e ripartono con quei passi forti e sicuri. Un facile commento!
Il giorno dopo a Pedrouzo al mattino presto, all’ultima colazione prima di arrivare a Santiago, la maglietta a righine con il suo compagno vengono a salutarmi. Facciamo gesti, sorrisi, poi uno di loro mi dice lentamente in inglese: «Ci rivedremo in un’altra vita!» e sono partiti. Erano ambedue commossi, e più di me. Non avevo più commenti facili da fare.

27 giugno 2003

Usciamo da Melide che è ancora buio. Ci facciamo luce con le pile ma ogni ombra sembra un ostacolo. Vedo sulla nostra sinistra un mucchietto di pelo. Sento una presenza animale. Faccio finta di niente: magari è un topo. Meglio non spaventare né la mamma nè lui. La curiosità però non frena la mia mano, che dopo pochi passi rivolge la pila sull’animale: era un piccolo riccio impaurito. Che carino! Speriamo di non averlo spaventato troppo con le nostre enormi ombre.

Non bastano i boschi di eucalipto per distogliere Elena dalla delusione della Galizia. A cominciare dai selli che sono tutti uguali per finire alla mancanza di pulizia dei rifugi ugualmente presente. Ma a Pedrouzo c’è stato un conforto: è arrivato nel tardo pomeriggio, dopo quarantacinque chilometri Fernando, uno del gruppo bevitori di Logroño. L’ultima volta che era stato con noi risaliva a Bercianos. Sono emozioni speciali, abbraccia commosso anche me.

28 giugno 2003

Naturalmente l’ultima tappa sembra eterna. La guida dice che il desiderio di arrivare a Santiago cancella l’ultima fatica. Io invece vorrei che il camino non finisse mai perché la vita da ‘pellegrina’ è una esperienza unica, e l’idea di lasciare il camino mi rende triste e col passo pesante.
Ma a Santiago e con l’arrivo alla Cattedrale si apre tutta un’altra atmosfera e tante emozioni: la piazza, la chiesa, il portico della gloria, la navata, l’altare e sopra la statua di Santiago, la consegna della Compostela, poi… all’Hostal … e il camino è finito. Finito, finito, lo zaino sta due giorni in un angolo. Diventiamo turiste: una bella dormita, acquisti, prenotazione del viaggio di ritorno.
Il giorno dopo, domenica, alla messa del Pellegrino ancora emozioni. Vediamo tanti compagni di viaggio: Nicolàs ci viene incontro e non nasconde il groppo alla gola. La Messa è cantata da un coro di Siviglia. L’officiante parla lentamente e sembra proprio che voglia farsi capire da tutti. La chiesa è piena, ci sono tanti turisti ma i pellegrini sentono una appartenenza diversa.
Il Botafumeiro con grande effetto benedice tutti.

Lucia e Elena

LA VIA FRANCIGENA

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