miti e simboli

Miti

La maggior parte delle parole, anche quelle del quotidiano, proprio perché si sono formate in tempi lontani, riportano significati e simboli che fanno parte della mitologia. Molte storie della nostra mitologia sono state raccontate da Esiodo nella Teogonia, scritta nel VII secolo a.C. e come lui hanno raccontato anche Omero, Pindaro, Eschilo Sofocle. Come dissero le Muse, figlie di Zeus e di Mnemosine Zeus allo stesso Esiodo … noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare.

Simboli

I simboli sono strumenti di conoscenza. Il simbolo precede il linguaggio e prelude al ragionamento. Il simbolo rileva e mostra aspetti della natura e del reale e attraverso la constatazione offrono una conoscenza primaria. Oltre alla esperienza diretta i simboli si portano dietro una realtà storica, e con la sua definizione offre punti di partenza per nuove valutazioni.

Intuizioni

Una parte della nostra conoscenza, anche se ciò non viene ufficialmente accettato, proviene da intuizioni che ci fanno capire cose in un modo diverso dall’apprendimento , cioè non dall’informazione ne dalla esperienza diretta.

Si può supporre infatti che l’inconscio si sia sviluppato in noi prima del linguaggio, e abbia guidato le nostre azioni attraverso un sistema biologico cha non riusciamo a valutare e che è stato sopraffatto dalla formazione del linguaggio. Il linguaggio come interpretazione del pensiero potrebbe non essere affidabile mentre una intuizione, uno stato di coscienza potrebbe cogliere un sapere di qualità migliore. Il linguaggio è diventato uno strumento sempre più potente e la sua interazione e coabitazione con l’inconscio può essere soffocante. E così il linguaggio non riesce ad esprimere i segreti dell’inconscio.

Come fu scoperta della formula del benzene da Kekule von Stradonitz nel 1865 non fu mai ufficialmente rivelato. Solo nel 1890, durante una festa in suo onore per il venticinquennale della sua scoperta, Kekule cedette alle pressioni di amici e colleghi e raccontò che 25 anni prima si era addormentato davanti al fuoco e nel sonno aveva visto un serpente che si mordeva la coda. Lo scienziato si svegliò e per tutta la notte lavorò per risolvere l’enigma della struttura ciclica esagonale del benzene. La storia venne raccontata (in varie versioni) nel corso di tutto il secolo successivo.

Friedrich August Kekulé von Stradonitz (1829 – 1896), chimico tedesco.

  • Io stavo seduto intento a scrivere il mio trattato, ma il lavoro non progrediva; i miei pensieri erano altrove. Girai la mia sedia verso il fuoco e mi assopii. Di nuovo gli atomi si misero a saltellare davanti i miei occhi, ma stavolta i gruppi più piccoli si mantenevano nello sfondo. L’occhio della mia mente, reso più acuto dalle ripetute visioni di questo genere, ora poteva distinguere figure più grandi, di diverse fogge, disposte in lunghe file in qualche punto assai vicine le une alle altre, tutte che giravano e si attorcigliavano come un groviglio di serpenti in movimento. Ecco che a un tratto uno dei serpenti, afferrata la sua stessa coda, roteava ironicamente davanti ai miei occhi. Come per un lampo di luce mi svegliai,… spesi il resto della notte ad elaborare le conseguenza dell’ipotesi. Signori impariamo a sognare ed allora forse intuiremo la verità. (citato in Chimica Organica).

UROBORO :Un’etimologia «ermetica» legata alla tradizione alchimistica, frutto di libere associazioni non fondate su basi linguistiche

Per quanto riguarda l’ambito letterario, il serpente è stato usato come allegoria della ciclicità del tempo anche dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathustra (1883-1885), precisamente nel discorso “La visione e l’enigma”, anche se non menziona precisamente la figura dell’Uroboro.

CODICE COSPI

Manoscritto divinatorio mesoamericamo secolo XV XVI

Oggi questo prezioso manoscritto appartiene alla biblioteca universitaria di Bologna.

PROMETEO

Il mito greco di Prometeo, uno dei più lontani nel tempo, è sempre stato presente nelle rielaborazioni dei più grandi scrittori. Il dramma scritto e rappresentato da Euripide nel 400 a.C. impegna ancora oggi soluzioni di realizzazione scenica e di interpretazione drammatica. Il grande interesse unito al fascino del racconto non ha portato a poter leggere la sua storia in maniera lineare e chiara, anzi gli approfondimenti e le ricerche hanno messo in luce particolari discordanti. Rimane comprensibile, comunque, che c’è stato un Prometeo che rubò il fuoco agli Dei, un Prometeo che fu Incatenato e un Prometeo che fu Liberato.

Secondo Esiodo (TEOGONIA) Giapeto, figlio di Urano (cielo) e Gaia (terra) si unisce con Climene e generano Atlante, Menezio, Prometeo e Epimeteo.

A Prometeo ed al fratello Epimeteo Zeus, quando dopo un diluvio vuole creare una nuova generazione, dà il compito di distribuire agli esseri viventi le proprie caratteristiche. Epimeteo detto ‘colui che si rende conto dopo ‘ quando arriva ad occuparsi degli uomini ha esaurito tutte le qualità naturali. Prometeo detto ‘ colui che riflette’ trovò la soluzione e rubò il fuoco a Efesto ed ad Atena la saggezza tecnica e ne fece dono all’uomo. L’uomo diventò superiore agli animali e questo a Zeus non piacque e punì duramente Prometeo facendolo incatenare ad una roccia e scagliando su di lui un’aquila dalle grandi ali che di giorno veniva a mangiargli il fegato. Di notte il fegato ricresceva, così che la tortura era eterna e questa è la sorte del mito del Prometeo incatenato.

 Il testo del successivo tema ‘Il Prometeo liberato’ non ci è pervenuto ma il racconto è riportato da altri autori.  Sarà Eracle che mentre vaga alla ricerca del giardino delle Esperidi si trova di fronte alla terribile scena. Prometeo sa indicare la strada che deve affrontare e lo consiglia. Allora Eracle con una freccia colpisce l’aquila e Zeus non interviene perché vuole che suo figlio Eracle conquisti ancora più fama.
Per le interpretazioni e variazioni di questo mito una pubblicazione di Federico Condello, riporta oltre a Eschilo, i testi di Goethe, Shelley, Gide e Pavese.

EUROPA

Da dove proviene il nome del nostro continente :EUROPA?

Era una principessa fenicia, figlia di Agenore, Re di Tiro, un sovrano vissuto, secondo la mitologia greca, nel XVI secolo a. C. e si chiamava Europa. Ma anche il nome di Euro, un vento che soffiava verso l’occidente, potrebbe essere stato la fonte di questo nome, e Euro a sua volta era figlio di dei, della madre Eos, simbolo dell’Aurora e di Astreo, quello del tramonto.

Di Europa si racconta questo, come lo riporta OVIDIO nel secondo libro Le Metamorfosi. Giove (o Zeus come si diceva in Grecia) vede una bella fanciulla che gioca con le amiche su una spiaggia, se ne innamora, assume la forma di un bellissimo toro, con una espressione dolce, per potere avvicinarla e quando lei si avvicina incuriosita, la rapisce …

quand’ecco il dio, senza parere, dalla terra, dall’asciutta arena, pone dapprima le contraffatte orme nelle onde marine, poi procede oltre e reca la sua preda attraverso i flutti dell’alto mare. Ella s’impaurisce: rapita si volge a guardare la spiaggia lontana; a un corno si afferra con la mano destra e l’altra preme sul dorso; rabbrividendo, le vesti si gonfiano nello spirare della brezza. …

La storia sembra violenta e non è la sola perché Zeus era un dio molto potente, ma sempre fragile di fronte alla bellezza delle giovanette. In questo caso tale azione potrebbe essere giustificata per raccontare la fondazione della città di Cnosso e con le sue ulteriori vicende del Minotauro, di Teseo, di Arianna, oppure per mettere in luce non solo la curiosità di una giovane quale era Europa che la fa cadere nell’inganno? Questo dubbio si presenta sempre o quasi quando seguiamo gli avvenimenti di tutta la storia mitologica greca.

Seguendo la sorte di Europa sappiamo che il padre, ordina a suo figlio Cadmo di andare a cercare la sorella, ma lui (fidati dei fratelli!) la sorella non la trova, anzi si fece la sua esperienza per diventare il fondatore della futura Tebe, per poi avere in dono Armonia, come sposa, addirittura la figlia di Ares e di Afrodite.

Ma per la potente dea della bellezza e dell’amore, che oltre ad Afrodite possiamo chiamarla Venere secondo la trasposizione romana, Armonia era stata un peccatuccio e suo marito, Efesto, dai romani detto Vulcano, non chiuse un occhio per il tradimento.

Efesto per vendetta forgiò una collana che fu data in dono ad Armonia il giorno delle sue nozze. La collana doveva avere il dono di mantenere la giovinezza e la bellezza a chi la indossava, e invece si portò dietro anche una maledizione di disgrazie. Armonia la passò alla figlia Semele, poi a Giocasta, poi a Polinice da lei a Erifile, dopo altri passaggi sempre tragici la collana fu affidata ad un tempio. Passarono gli anni e il tiranno Phayllus la rubò per darla in dono alla sua amante che quando la indossò vide suo figlio impazzire e forse la collana finì nell’incendio della loro casa.

Gli argonauti

N

La nave Argo da il nome alla vicenda che riguarda Giasone e altri eroi per la conquista del Vello d’oro.

Sisifo

Il mito di Sisifo parte da molto lontano. Secondo il racconto di Esiodo suo padre era Eolo, il dominatore dei venti, capostipite di una popolazione che aveva invaso la Grecia nel II millennio a. Cr. Nel 1429 a.Cr. Uno dei figli di Eolo, Sisifo, fondò la città di Efira (l’odierna Corinto). La bella città era scarsa di acqua e Sisifo trovò una soluzione quando vide Zeus amoreggiare con Egina la figlia di dio del fiume Esopo. Avvisò il padre chiedendo in cambio una fonte d’acqua perenne.

Naturalmente questo scatenò la vendetta di Zeus che ordino a Thanatos, la morte, di andare a prendere Sisifo. Sempre vigile e pronto a trovare soluzioni anche gravi Sisifo riuscì a incatenare la morte a delle rocce. Il dio delle Guerra, Ares, si accorse che nelle battaglie non moriva più nessuno, e poiché questo toglieva il prestigio alle sue vittorie andò a liberare la morte e fece portare Sisifo agli inferi.  Anche per questa evenienza Sisifo aveva progettato l’inganno. Aveva ordinato alla moglie di non celebrare i riti funebri alla sua morte e di questo si andò a lamentare con il re degli inferi Ade chiedendo che gli fosse permesso di tornare sulla terra a punire la moglie e ad obbligarla a fare ciò che era giusto.

Ottenne di tornare sulla terra, ma non rispettò il patto e rimase nel mondo dei vivi. Ma giunse anche per lui il momento della morte definitiva e quando si ritrovo fra i morti lo aspettava la condanna per tutte le furberie e gli inganni della sua vita. La condanna di Zeus consisteva nell’ obbligo di spingere un masso enorme fino in cima ad un monte, per poi seguirlo mentre rotolava in basso e ricominciare di nuovo il supplizio, per l’eternità.

Simbolo del lavoro assurdo e inutile, preso ad esempio da politici filosofi, Sisifo viene a proposito di tutti coloro che sentono il proprio quotidiano come una fatica assurda che non porta a niente

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Proserpina

All’inizio di tutti i tempi, sulla terra splendeva sempre il sole e faceva sempre caldo. I prati erano perennemente coperti di fiori e nei campi crescevano frutti, verdure e frumento tutto l’anno.

La Dea Cerere che seminava, innaffiava le piante e faceva sì che gli alberi fiorissero e dessero frutti.

La Dea aveva una bellissima figlia Proserpina.

C’è un lago vicino alle mura di Enna, profondo, che si chiama Pergo, e neppure il Caistro ascolta sulle sue onde più canti di cigni. Un grande bosco corona le acque da tutti i lati, e con le sue fronde fa velo al fuoco del sole. 390 I rami danno fresco, la terra umida produce fiori: è un’eterna primavera. In questo bosco Proserpina mentre gioca a raccogliere viole e candidi gigli, e ne riempie con zelo fanciullesco le ceste e il seno,

Ovidio Metamorfosi 341 ….

Plutone se ne innamorò, la rapiì e la portò nel suo regno dell’oltretomba .

Si era difesa la bella fanciulla, amante dei fiori, e quando Plutone la mise sul suo carro il suo grido disperato arrivò fino all’Olimpo.

Cerere, la madre, riconobbe la voce della figlia e scese subito sulla terra per soccorrerla.

Così si allontana dall’Etna e inizia il suo viaggio. Maledicendo i fiori- colpevoli di questa tragedia-  e il luogo stesso in cui è avvenuto il rapimento, segue le tracce sparse qua e là nei sentieri. Inclinando le torce scuta i campi, al chiarore della torcia. Ogni solco si riempie di lacrime, ogni cosa le strappa un lamento, ogni mare in cui galleggia la sua ombra si tinge diuna luce rossa: con i suoi ultimo bagliori essa raggiunge l’Italia e la Libia, illuminando le spiagge dell’Etruria, e le Sirti- che rispeldono nelle loro acque fiammeggianti-e, più lontano le caverne di Scilla, i cui cani corrono a rifugiarsi nell’ombra: alcuni ammutoliscono stupiti, altri resistono alla paura e abbaiano.

Claudiano-  Il rapimento di Proserpina (a cura di M.Bertamini , M. De Andelis Ed. marcos y marcos)

Per nove giorni la cercò in tutti i luoghi, senza sosta, senza mangiare, chiedendo notizie ovunque.

Infine, il Sole ebbe pietà del suo dolore e le disse che la figlia con il suo sorriso rendeva felice il mondo degli Inferi.

Cerere si abbandonò alla sua disperazione e si rifugiò in un suo tempio e da quel momento tutta la natura che da lei dipendeva cominciò a morire. Le messi non maturarono più, i fiori e i frutti marcirono e la terra mostrava la stessa desolazione che viveva la Dea.

Gli dei  per consolarla e farla tornare nell’Olimpo le offrirono molti doni  ma lei chiedeva solo il ritorno della figlia sulla terra.

Allora Giove lo ordinò a Plutone. Non potendo rifiutare tale ordine il re degli inferi obbedì…

Si rallegrò la saggia Persefone (Proserpina) e balzò subito in piedi colma di gioia, egli tuttavia le diede da mangiare il seme del melograno dolce come il miele- furtivamente guardandosi attorno- affinchè elle non rimanesse per sempre lassù con la veneranda Demetra (Cerere) dallo scuro peplo

Inni Omerici II – A Demetra 370-374

… ma trovò uno strattagemma per non perdere definitamente la sua bella moglie.

Prima di farla salire sul carro le offrì  dei chicchi di melograno, quei chicchi per la loro natura l’avrebbero legata al mondo degli inferi.

La fanciulla arrivò finalmente al tempio dove si trovava la madre e appena le due donne si abbracciarono nel mondo tornò la luce.

Però, mentre gioivano della loro ritrovata vicinanza Cerere comprese che la figlia aveva un legame indissolubile con Plutone. Una consolazione fu di chiedere a Giove che concedesse alla figlia di poter tornare sulla terra almeno per un periodo dell’anno.

Così sulla terra si alternarono le stagioni : l’assenza di Proserpina, il suo avviarsi per il ritorno sulla terra, la sua presenza, e la preparazione per tornare nel suo regno.

Sarà così che ogni madre vede la propra figlia portata via da un uomo?

E questo uomo lo sente come il re dell’oltretomba?

Molti sono gli artisti che hanno voluto raccontare questa storia:

Dante Purgatorio canto XXVIII  v.49 – 51

Tu mi fai rimembrar dove e qual era

Proserpina nel tempo che perdette

la madre lei, ed ella primavera

Pieter Paul Rubens 1614 Olio su tela – Musee du Petit Palais – Parigi

Luca Giordano 1682 Gallerie degli specchi Palazzo Medici Riccardi – Firenze

Gianlorenzo Bernini Ratto di Proserpina Galleria Borghese – Roma

Appena si incontra un mito, questo si apre, si confonde in altri dei quali vogliamo sapere la nuova origine e di questa le versioni possono essere più di una.

OVIDIO

FILEMONE E BAUCI

Il poeta Latino Publio Ovidio Nasone racconta nelle sue ‘Metamorfosi’(ottavo libro dal verso 616 al 724), una storia che viene ritenuta il simbolo dell’amore coniugale.

Un giorno Giove e Mercurio arrivarono nella terra di Frigia prendendo l’aspetto di pellegrini e andarono alla ricerca di un luogo dove trovare asilo.

Bussarono a mille porte ma mille porte rimasero chiuse 

mille domos adiere locum requiemque petentes, mille domos clausere serae.

Tamen una recepit

Se ne aprì una sola, proprio la più povera, piccola e coperta soltanto di canne e stoppie.

Era la capanna di Filemone e Bauci, due vecchi coniugi che pur vivendo con pochissimo erano sereni e molto uniti. Quando videro i due pellegrini si mostrarono pronti ad accoglierli con tutte le attenzioni della ospitalità. Pulirono la panca verso la quale li invitarono a riposare, attizzarono la cenere del cammino e con poche foglie secche cercarono di fare un po’ di fuoco e per cuocere quel poco che avevano.  Con una bacinella d’acqua, nell’attesa del cibo offrirono un po’ristoro.

(Is tepidis impletur aquis artusque fouendos).

Mentre preparavano i due vecchi si accorsero che sulla tavola stavano avvenendo dei prodigi e compresero che si trovavano di fronte a degli Dei. Si spaventarono e si prostrarono, e pregando chiesero perdono per la modestia di quanto potevano offrire. Avevano un’oca, unico capitale e decisero di sacrificarla, ma l’animale scappando, finì per rifugiarsi proprio presso gli Dei.

Allora Giove e Mercurio si alzarono e invitarono i due vecchi a lasciare la casa ed a seguirli sulla montagna. Obbedirono i due vecchi e appoggiandosi ad un bastone con passo lento si misero in cammino e, quando stavano per raggiungere la vetta, videro che una palude cominciò ad invadere la valle sommergendo tutto. Un altro prodigio fece trasformare la loro capanna in un tempio con pavimento d’oro e colonne di marmo.

A quel punto Giove, il padre degli dei, con voce serena si rivolse a loro chiedendo offrendo una ricompensa per la loro ospitalità. “Cosa desiderate”

Dicite,iuste senexet femina coniuge iusto digna, quid optetis.

I coniugi con umiltà si offrirono di poter esser i custodi di quel tempio, per poi, quando fosse giunta la loro ora, poter morire nello stesso momento in modo che nessuno dei due fosse costretto a piangere la morte dell’altro. 

Questo chiesero e questo gli Dei consentirono. Filemone e Bauci custodirono il tempio per molti anni e un giorno, mentre parlavano, videro delle fronde spuntare sulla fronte sia dell’uno che dell’altra. Continuarono a parlare fono a che tutto un albero li avvolse. Allora dissero: “Addio amore”.

Si erano trasformati in una quercia e in un tiglio.

Il vecchio Filemone
la moglie Bauci

LE DIONISIACHE

Le Dionisiache sono un poema di NONNO DI PANAPOLI del V secolo d.C. che racconta la vita di Dioniso , il Bacco dei latini. Tutta la mitologia conosciuta ricompare tanti secoli dopo, quando il cristianesimo ha operato la sua frattura nel mondo greco e non soltanto in quello. Nelle Dionisiache si ritrovano gli stessi personaggi, gli stessi miti, lo stesso fascino anche se le storie si ricreano mantenendo tuttavia tutta la loro potenzialità.

Dal risvolto di copertina

Inizio e fine della letteratura greca portano il sigillo di due grandi poemi epici l’Iliade di Omero e le Dionisiache di Nonno, dedicato alla gesta ed alle avventure di Dioniso, il dio che più di ogni altro ha affascinato i moderni. Tredici secoli separano queste opere, simili a prodigiose fioriture, una all’alba, l’altra sul margine della notte. Ma se Omero ha rappresentato per il mondo antico l’ultima autorità, fonte della poesia e insieme di ogni sapere, Nonno ha conosciuto, almeno fino ai tempi recenti, una sorte opposta: è stato infatti ignorato e accantonato come un oscuro epigono.

Nato in Egitto nel V secolo d.C. egli si azzardò a comporre, in un poema che avesse tanti canti quanti l’Iliade e l’Odissea insieme, la summa abbagliante del mito greco e nel contempo dei molti modi poetici- dall’epico all’erotico, all’elegiaco- di quella civiltà.

E la temeraria impresa riuscì: qui assistiamo, come scrive Giorgio de Santillana, al “pieno sbocciare” di quel “fiore giapponese” che fu il mito arcaico.

In questa edizione, la prima in lingua italiana, il lettore avrà la rara ventura di scoprire, attraverso le vicende inesauribili di Dioniso e degli altri dei pagani, un capolavoro che ha percorso i secoli in incognito e si offre ai nostri occhi come una mirabile, integra statua appena dissepolta

Marsia e Apollo

La gara fra Marsia e Apollo.

La storia comincia lontano, così lontano che dobbiamo prendere un punto fermo per raccontarla altrimenti ci potremmo perdere fra le tante parti che incontriamo. Partiamo da Perseo, l’eroe mitologico quando riesce a uccidere Medusa.

Stenno e Uriale per il dolore della loro sorella uccisa emanarono un grido tale che meravigliò la dea Atena al punto che cercò di riprodurlo creando un nuovo strumento musicale. L’ aulos a creare un particolare flauto a doppia canna nel tentativo di riprodurre quel suono.

Ma mentre la Dea suonava si vide riflessa in uno specchio d’acqua le sue gote gonfie che deturpavano la sua bellezza. Gettò allora lo strumento nell’acqua lanciando una maledizione. Ma un satiro, Marsia raccolse lo strumento lanciò una sfida sulla musica ad Apollo. il dio allora creò la lira e con quella vinse e la sfida e punì Marsia scorticandolo vivo.