Romolo



CORTESIE TRA I FIORI

divagazioni tra letteratura e botanica dalla

BELLIS all’IRIS

La colta persona, che si inoltra in un paese alla ricerca delle sue bellezze, non sempre si adatta a seguire gli itinerari predisposti dalle guide per l’accesso a musei, chiese, pubblici ritrovi e luoghi di accesso. Dovrebbe essere concesso al pellegrinante anche di ammirare da sé spettacolo naturali, come parchi e i giardini, talora sottratti al godimento da alte muraglie o da opache cancellate e accessibili in orari ridottissimi, talora a pagamento. A queste mie riflessioni consentiva tempo addietro un amico mentre mi accompagnava tra le delizie di un pubblico giardino che poteva anche dirsi giardino botanico. E mi faceva appunto notare la differenza nel pregio di quelle targhette apposte agli alberi e agli arbusti, indicatrici del genere, delle specie e in qualche caso anche dell’età di ogni pianta ragguardevole. Aggirarsi tra quelle aiuole e sotto quelle ombre, dava lo stesso piacere che trovarsi in un salotto o in una accademia di amici e scambiarci complimenti e presentazioni. Ho un ricordo di questo genere allorché visitai in un giardino botanico di Lucca, un’oasi di tranquillità a tutti ospitale, anche se, per fortuna, dimenticata dalle invadenti guide. Dicevo appunto al mio amico che la nomenclatura delle piante mi ricordava l’antico uso della nomenclatura tra le persone…Quando i personaggi dell’antica Roma si aggiravano nel foro erano accompagnati da uno schiavo, o liberto, che, come un maestro delle cerimonie, rammentava i nomi delle persone da salutare, e costui si designava appunto come servus nomenclator. È un problema anche nostro; qualche volta non accade di incontrare una persona altrove conosciuta e di non riconoscere il nome per salutarla con dovuto appellativo! A proposito di questi nomi latini dettati dai botanici Linneo e De Candolle, il mio amico mi ricordava una amena battuta di cui ignorava l’autore e diceva press’a poco così: ” il botanico è quell’importuno che si aggira tra boschi e giardini, asporta furtivamente fronde e fiori che secca, infilza, impacchetta e poi ingiuria in latino“- Chi l’ha detto? A furia di scartabellare, l’ho ritrovato. L’autore della amena battuta era uno che se la poteva permettere in quanto apparteneva anche lui all’eletta schiera dei pollici verdi. Era Alphonse Karr un famoso scrittore e giornalista, divenuto in età avanzata giardiniere. Quando ci sia appassiona ad un tema è naturale che poi concorrano a svilupparlo reminiscenze e impressioni di viaggi, di incontri e di letture. Un giorno, di ritorno da un mio viaggio dall’estero dove in un congresso avevo incontrato varie persone anche loro etichettate per distinguersi con all’occhiello una placchetta, a Torino, all’uscita della stazione ferroviaria di Porta Nuova, in Piazza Carlo Felice, m’accadde di osservare un gruppo di alberi anche loro forniti di targhette nomenclatrici e ne feci un paragone. Non solo ma mi venne in mente che forse di lì c’era passato lo scrittore torinese Guido Gozzano, lo stesso che altrove col suo gusto raffinato si era espresso con questa frase: “Ogni albero reca sul tronco una targa; pessima consuetudine che dà alla poesia di un giardino esotico un sentore farmaceutico e tutta la prosa di una rivendita di droghe e coloniali.” Era un giardino di terre lontane e il poeta soffriva di nostalgia. Più allegra fu invece una trovata di goliardi durante una festa delle matricole. Avevamo battezzato gli alberi del nostro viale con i nomi latinizzati di taluni insegnanti e bidelli arricchiti di aggettivi latini come “hispidus” “barbatus” “letargicus eccetera. E del resto che cosa sono questi nomi latini artificiali se non il risultato della fantasia con cui botanici, zoologi e persino astronomi si obbligano a rendere omaggio a maestri e colleghi vincolando il loro nome? ( anche i Lolts, gli Ampère, i Watts sono altrettanti cognomi illustri escludendo il latino.) Ha ragione Alphonse Karr. C’è una pianta che un tempo accolsi in giardino per conoscere il valore alimentare dei suoi tuberi e che produce dei grappoli bianchi e profumati fiorellini…ma che colpa ne aveva se era stata battezzata Boussingaultia, un nome quasi buffo? Ed altri nomi, come Scrophularia oppure Sterculia sono forse un complimento? In compenso vi sono anche degli aneddoti gentili. In un suo libro di aneddoti giovanili dal titolo “Inventario di una casa di campagna” Pietro Calamandrei offre in lettura questo passo:” quando ebbi saputo che la margheritina si chiamava Bellis perennis non potei più incontrarla su prati senza rivolgerle un saluto, come si usa, dopo la presentazione, tra persone conosciute”. Anche per Calamandrei dunque un giardino può essere un salotto. Ma da chi lui aveva appreso il nome latino della margheritina? Mi concedo da capo un po’ di fantasia e penso addirittura a Giovanni Pascoli in quei versi dei suoi Nuovi Poemetti dedicati appunto alla Bellis perennis la Pratellina.

O mezzo aperta,. o come chi non osa,
o pratellina pallida e confusa,
che sei dovunque l’occhio mio si posa
e chini il capo, all’occhio altrui non usa;
bianca, mai i lievi sommoli di rosa;
tanto più rosa quanto più sei chiusa;
ti chiudi a sera, chi sa mai per cosa,
sei chiusa all’alba ed il perché sai tu

Di sua varietà più vistosa, la margherita, a cui si riferisce anche una leggenda su Santa Margherita martire, si valgono altri scrittori, si valgono altri scrittori e poeti. Ungaretti scrive: Mi sono smaltato di margherite. m’ama non m’ama. e altrove la chiama pensando a sua madre: Madre, mia eterna margherita, che piangi e mi sorridi: vivi ora più che mai. Ippolito Nievo ricorda: “Nel riandare la mia storia io penso sempre alla margherita, a quel modesto fiorellino dal botton d’oro e dai raggi bianchi su cui le ragazze traggono il pronostico d’amore. Acanto a pascoli ecco un altro poeta che esalta i fiori: Guido gozzano. Una sua raccolta porta appunto il titolo:” I fiori che amo”. E fra essi spicca il celebre giglio di Firenze repubblicana, il giaggiolo, l’Iris. Lui la chiama ” orchidea dei poveri”, mane è affascinato

I celesti giaggioli
sono i fiori più belli della terra,
vere orchidee dei poveri- che nemmeno li guardano
e servono soltanto con le foglie – alle verdi battaglie dei bambini;
con quel colore e quello odor di cielo- mescolato al colore ed all’odore
del mare tra gli scogli, con i bocciuoli chiusi nei cornetti
di carta velina
come confetti,
e dentro i fiori spogli quelle sottili lingue
d’un giallognolo giallo peloso
per spazzolar le giubbe
verde smeraldo da postiglione delle cetonie
e giacche di fustagno dei maggiolini.

Un simile saluto affettuoso io rivolgo ogni tanto ad una piantina che pure ha un nome molto semplice. Cimbalaria . quando l’adottai, ne raccolsi un ceppo che si trovava in difficoltà nell’arrida fessura di una vecchia muraglia e la inserii fra i mattoni di un parapetto. È una piantina che prospera appunto tra le rocce e che gradisce ogni tanto le mie piccole dosi di salnitro e fosfati. Sviluppa così un grazioso tappeto di sottili steli con fitte foglioline, pari a minuscole foglie d’edera, in mezzo a cui spiccano altrettanto minuscole corolle labiate bianco-celesti con la gola dorata. Ma un giorno da uno che se ne occupava come l’ho sentita chiamare? I pidocchi della Maddalena ! non si trova questo nome neppure nell’opera del Penzig sulla Flora Popolare Italiana. Sono dunque non soltanto i Botanici che ingiuriano i fiori. Il popolo ama i fiori, li osserva, li confronta e sceglie per essi anche nomi poetici più gradevoli di quelli inflitti dai naturalisti. talora li accoppia a nomi di animali e così incontriamo la bocca di Leone, il dente di cane, la coda cavallina, l’uva orsina, l’orecchio di topo; oppure a nomi mitologici come l‘ombelico di Venere. occhi, labbra, sorrisi e lacrime ci appaiono raffigurati in altrettanti immagini di fiori quando, in casa nostra, sfogliamo i cataloghi e gli erbari. poi incontriamo nomi allegorici: la nebbia, il velo da sposa, il cielo stellato; e leggendari: la verga di Aronne, le mazze di San Giuseppe, le pianelle della madonna, e, più ancora tutte le erbe dedicate a molti santi, come San Giovanni, San Piero, san Martino, a secona anche delle virtù curative… piante, erbe e fiori… entrano nell’araldica, come le foglie dell’edera e delle betulla come le pigne ei melograni. Sono i petali delle grandi margherite che si fanno interrogare se uno: ” ama o non ama”, come sopra già raccontato. Piante e fiori sono accolti nel simbolismo dei filosofi ( la rosa e i suoi petali) e nel linguaggio degli innamorati. Ed è così che la Botanica diventa poesia. Appunto la Poesia. I poeti, specialmente toscano, hanno da tempo adottato una piccola galanteria che si chiamo s t o r n e l l o . Quattro versi che cominciano con la invocazione ad un fiore. “Fiore di rosa” “Fiore di giglio” e chiudono con un saluto. Lo stornello è cantato , nelle gare fra rimatori. Ed anch’io con un saluto termino. Me ne valgo addirittura alla scuola di un maestro. È lo stornello con cui Giosuè Carducci si congedava al termine della raccolta “Rime e ritmi”

                                Fior tricolore
                      Tramontano le stelle in mezzo al mare
                    E si spengono i miei canti entro il mio cuore

                                               Romolo Mazzucco . Firenze 5 agosto 2001

Ditirambo di agosto

08 agosto 1942

Mio caro Assetto,
o Tintoretto
di bell’aspetto
scrive Masino
che in un paesino
fuor di Torino
sei in vacanza
con gran baldanza
della tua panza!
Fra fraticelli
e bei ruscelli
i tuoi pennelli
lieto brandeggi
e furoreggi.
Ben ci motteggi
con belle fole
senza parole,
mentre che al sole
la pelle tingi
la tela pingi
(censura !) incingi!
Ma tra non guari
ai patri Lari,
presto ripari!
(Che pena, Franco,
tornare al banco
che rende stanco!)
Allor ti giunga
e ben ti punga
questa mia lunga
mandolinata
escogitata
tra una pomata
quattro cartine
due pilloline
ed un Kaimine!

Dunque che fa
or che in città
ritorna e sta
tua Tintoria?
in farmacia
sta ben che sia,
ma dopo l’arte
le vecchie carte
messe in disparte
riprenderai
e aiuterai
quel tal che sai…
Masino approva
che ci si muova
per quella nuova
birbanteria
ch’entro Pavia
convien che sia
imperitura,
nostra bravura,
(niente paura!)
Ai ferri corti
vorrei proporti
senza indisporti,
un tema fesso
che mandi in cesso
tutto il Congresso.
In cesso, ammetto
non per effetto
d’intestin retto,
ma per azione
di suggestione
sulla minzione!

Storia un po’ tonda
poco profonda
ma assai gioconda!
un tal salmì
che ognun quel dì
farà pipì!
Un diversivo
assai giulivo
e aperitivo
che m si inserisce
tra le prolisse
altrui mantisse.
Caricature
pazze figure
e metti pure
una Rivista
del Farmacista
collezionista
da proiettare
o declamare
o far stampare!
Se ti solletica
questa frenetica
(fors’è bisbetica?)
mia burletta
dammi pur retta:
E’ una … “bazzetta”!
Ma ancor dirotti
e scriverotti
se piacerotti.
Intanto “ave”
da’ cani “cave”
e pur dal grave
restar di stucco
per questo trucco
dal tuo MAZZUCCO

Offerto al pittore
e farmacista
Franco Assetto

Mezzogiorno a Firenze

articolo pubblicato su ‘Firme Nostre’ nel 1977.

È mezzogiorno in punto, a Firenze, la domenica di Pasqua. Mentre in Cattedrale s’intona il Gloria, dall’altare scatta un razzo, la ‘Colombina’, verso una specie di castelletto, il ‘carro’ che l’attende dinanzi al Battistero. Succede quasi un finimondo: esplodono i razzi, fischiano le girandole, impazziscono le campane, si spaventano torme di piccioni, si commuove la gran folla degli spettatori, e persino qualche incallito borsaiolo ci ripensa avanti di profanare un momento mistico.

D’un momento mistico, infatti, si tratta ogni volta che scocca il mezzogiorno: è un rito che da Messina, a Prada, a Venezia, mobilita giochi di automi, mette a prova dovunque bravi campanari, sollecita i religiosi e recitare la preghiera dell’Angelus’.

C’è chi sostiene che questa cerimonia abbia avuto in passato funzione di esorcismo. A mezzogiorno, secondo a vecchia magia, non meno che a mezzanotte, agirebbero gli spiriti: il significato primitivo della dea Diana sarebbe quello di un ‘demone meridiano’. Chi sembra crederlo è nientemeno che Giosuè Carducci. È a mezzogiorno che batte il Sole sul castello di Verona mentre s’inizia la leggenda di Teodorico. È a mezzogiorno che, come assicurano i cipressi di Bolgheri, escono le ninfe e ‘Pan l’eterno ‘ a sommergere magicamente gli intimi dissidi dei mortali…

Ma quando è veramente mezzogiorno?

Per accertare veramente l’ora del mezzogiorno da millenni l’umanità si è servita di uno strumento che ha sempre appassionato matematici, astronomi ed oggi anche archeologi e letterati: la meridiana, argomento di molti trattati, detti di gnomonica, specialmente arabi, ed ispirazione anche per i poeti inventori di filosofici motti da incidere sui quadranti.

Vi sono delle meridiane monumentali, come quella di San Petronio a Bologna e quella di Santa Maria degli Angeli a Roma; e Firenze stessa di meridiane abbonda. La più antica, divenuta misteriosa, si trovava nell’interno del Battistero, costruita da uno Strozzo Strozzi di cui rimane la pietra tombale. Se ne occupò lo scolopio padre Ximenes, fondatore del benemerito osservatorio Ximeniano di piazza S: Lorenzo, senza giungere a ricostruirla.

Lo stesso invece mise a punto l’altra più nota meridiana, quella della Cattedrale, che si trova sul pavimento della tribuna di sinistra e che era stata ideata da Paolo Dal Pozzo Toscanelli.

Altra meridiana, opera di Ignazio Danti, si vede sulla facciata di santa Maria Novella con tanto di dedica del granduca Cosimo I agli studiosi d’ astronomia. Ancora una la troviamo sul Ponte Vecchio. E altre appaiono qua e là in amene ville come quella di Poggio a Caiano, o su chiese e campanili, come su una cappellina a Montaione. In più abbiamo le meridiane portatili esposte al fiorentino Museo della scienza.

Ma quando il cittadino di oggi – guarnito di cronometro regolato dai segnali della radio, regolati a loro volta dall’istituto nazionale di elettrotecnica, il quale a sua volta si regola sulle vibrazioni atomiche e non più del Sole – si pone davanti ad una di queste meridiane, sui cui quadranti appaiono anche misteriose curve, confessa di non capirci nulla o dubita che sia tutto sbagliato!

Non è il solo: una recente guida del duomo di Milano asserisce anche oggi che una meridiana ivi tracciata dagli astronomi di Brera è inefficiente perché errata.

Per aiutarlo a capirci qualche cosa converrebbe accompagnare il suddetto cittadino in Piazza della Signoria davanti ad un’altra meridiana che si trova murata sul palazzo numero 7, quasi all’angolo di via delle farine. Una guida lo definisce un ‘ curioso strumento astronomico ‘ evidentemente perché rinuncia a comprendere quella specie di doppio fuso, una cifra 8 allungata, che vie è disegnata sul quadrante.

E qui occorre spiegare che i momenti del mezzogiorno sono due! C’è il mezzogiorno vero, quello che i dizionari definiscono come l’istante in cui il disco del Sole passa al meridiano, cioè taglia il traguardo della sua metà percorso, per iniziare la discesa verso il tramonto.

E c’è il mezzogiorno medio locale, il momento del ritorno delle lancette dei vecchi orologi sulle ore dodici, dopo ventiquattr’ore esatte.

Questi due momenti non coincidono salvo quattro volte l’anno: e queste perché il Sole anticipa o ritarda i suoi appuntamenti, sino ad una differenza tra un estremo e l’altro di oltre mezz’ora. Tutto questo è dovuto al variare della velocità di rotazione della Terra conseguente al variare della distanza della Terra dal Sole durante l’anno. Va dunque fatta una correzione che si chiama equazione del tempo.

Così su questa meridiana si legge il mezzogiorno vero quando l’ombra di quel lungo chiodo (lo gnomone) cade sulla linea retta verticale e si legge il mezzogiorno medio locale quando essa incontra uno dei due bracci di quella figura in forma di 8, a cui i matematici danno il nome di lemniscata.

Spiegata questa prima complicazione, ne rimane un’altra dovuta al progresso tecnologico.

Sino alla metà del secolo scorso ogni paese aveva la sua ora locale, il suo civico orologio, arrangiato più o meno sulla meridiana, salvo dove c’era la specola astronomica. Ma poi arrivò la necessità di un’ora unica per tutta la regione o il territorio, quella che doveva servire per gli orari ferroviari e il telegrafo.

Nacque così un ‘ora ufficiale prima per ogni stato, poi per ogni gruppo di stati che si trovano allineati lungo uno stesso meridiano: sorsero i fusi orari (proposti per la prima volta da un italiano, Quirico Flippanti) secondo cui la terra è divisa in 24 spicchi corrispondenti alla successione di altrettante ore.

Così il mezzogiorno ufficiale in Italia corrisponde al mezzogiorno medio locale dei paesi che si trovano lungo il 15° meridiano al est di Greenwich, quello che passa per l’Etna, in prossimità di Salerno e per Termoli. Per questo il nostro mezzogiorno fiorentino si trova in ritardo di 15 minuti circa su quello scandito dai segnali radio!

Questo porta come conseguenza la perdita di una nozione esatta del magico momento del mezzogiorno, quello celebrato poeticamente dalle ninfe meridiane.

E questa è una cosa che disorienta: nel senso che non sapendo più quando veramente è mezzogiorno, non sappiamo più neppure dove è il punto cardinale Sud.

Perciò quando il costruttore vuole edificare una casa ed orientarla secondo la direzione della luce solare, specialmente ora che si progetta di raccogliere e sfruttare le radiazioni del Sole, quando l’agricoltore vuole più razionalmente disporre le sue piantagioni, quando lo stesso giardiniere si preoccupa della direzione verso cui sbocciano le corolle dei fiori diventa necessario il soccorso della bussola, questo aggeggino che io suggerirei a tutti al posto di certi assurdi pendagli con motivi zodiacali!

Vogliamo altrimenti conoscerlo noi fiorentini, questo Sud?

Ci sono due allineamenti caratteristici che meritano di essere ricordati: per chi si pone in via Brunelleschi – tra il Battistero e piazza della Repubblica- la direzione della palazzina sul Forte del Belvedere; per chi ammira il panorama di Firenze dalla balconata di via Trento, dalle parti di via Bolognese, la direzione della Torre del Gallo.

Ma io sarei per una restaurazione del vero mezzogiorno, l’istante cioè del massimo fulgore dell’Astro che è il più autentico strumento della divina Provvidenza, al cui corso si accompagnano tanti e non tutti conosciuti fenomeno fisici e biologici. Nelle effemeridi più importanti degli osservatori astronomici non si manca di indicare questo mezzogiorno vero, precisando l’ora e il minuto, secondo il tempo convenzionale, del passaggio al meridiano.

Ma ricordo che un famoso naturalista francese, uno dei più brillanti divulgatori della scienza, il Buffon, inventò, per la pubblica cognizione del mezzogiorno vero, un geniale strumento per un giardino di Parigi. Sopra un sonoro disco, un ‘ gong ‘ pendeva una pallina metallica e il sottile spago che la sorreggeva era destinato a bruciarsi quando arrivavano al momento giusto del mezzogiorno i raggi convergenti trasmessi da una lente. Un solo rintocco e qualche romantico avrebbe potuto levarsi il cappello: un saluto al Sole!

Un giorno o l’altro qualche mio amico troverà nel mio giardino un giocattolo del genere!

Al chiarissimo professore G.A. Dotti

Luci ombre e sorprese del collezionismo

Chiamano i dizionari collezionismo la tendenza a raccogliere e conservare, classificandoli, ogni sorta di oggetti che abbiano valore documentario e artistico.

È una forma mentale che ha avuto successi in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Le biblioteche, i musei, i giardini botanici sono tutti trionfi dei cultori del collezionismo.

I suoi eccessi confinano con la patologia. Gianbattista Felice Descuret denunciò il collezionismo nel suo libro ‘ La medicina delle passioni ‘ pubblicato nel 1841. Anche gli psicologici includono il collezionismo fra le tare individuali. Carlo Goldoni mise in ridicolo questa mania nella ‘Famiglia dell’antiquario’.

Ma il collezionismo rimane anche una virtù per chi sa trovare e identificare dovunque il bello, il buono l’armonioso, l’ordinato. Il collezionista è molte volte un povero che onora anche le cose umili, senza avere le mani bucate.

Sono anch’io un collezionista e simpatizzo con altri miei congeniali. Nascono fra noi delle collaborazioni occasionali.

Un collezionista di francobolli mentre andavo frugando nelle montagne di carta da macero usciti dallo sgombero delle cantine, trovò delle fatture commerciali del secolo scorso, me le offrì ed a mia volta le offrii al titolare di una antica farmacia che le mise in vetrina.

Un giorno io feci una inserzione per fare una rassegna delle meridiane e degli orologi solari, utili alla storia dell’astronomia ed un raccoglitore di libri vecchi, mi fece omaggio di un volume fuori commercio, di quelli che stampano certe banche per i loro clienti non sempre intellettuali. Diventammo amici.

Il più interessante impiego del mio tempo libero è ora diventato la raccolta di cartoline illustrate. Conobbi tempo fa un appassionato fiorentino che delle cartoline illustrate stava raccogliendo addirittura un museo la cartolino teca del cav.  Gennaro Arturo Angioletti.

Prendendo esempio da lui diffusi un messaggio che servisse a documentare la popolarità di Dante Alighieri; cercavo cartoline illustrate che presentassero vie e piazze d’Italia con il nome di questo poeta. Tuttora continuo a ricevere cartoline di persone che sono liete di annoverare Dante tra i cittadini ideali del loro paese.

Ed insieme profittano dell’occasione per raccontare i loro problemi.

Altri chiedono lo scambio con cartoline su altro tema. Quando poi le raccolte di cartoline comunque ammassate arrivano a molte migliaia sorge la possibilità delle particolari collezioni tematiche. Si confrontano le calligrafie, la correttezza dei francobolli e degli annulli, le battute spiritose di certi corrispondenti e le crittografie.

Ad un mio amico il cui cognome è ‘Ponti ‘ interessano tutti i ponti d’Italia, con eccezione del Ponte Vecchio. Invece un signor ‘Monti’ gradisce saluti da Montebello, oppure da Belmonte, meno da Monticello. Altro, vecchio combattente, colleziona monumenti ai caduti in guerra. Ma alle volte è lo stesso nome della località che suggerisce il buon umore.

Nella mia collezione c’è una frase “Da Gradisca ben gradisca i miei saluti”. C’è la cartolina di un innamorato che manda la figura del Palazzo Bentivoglio. Ce n’è un ‘altra in cui uno risponde “Villa Schifanoia”. Ma la più originale è quella di un astrofilo con la figura di una luna piena: una luna dove al posto della figura di Caino e le spine, appare  l’immagine di due amanti che si baciano.

Ogni amabile signora comprenderà se chiudo a questo punto il mio raccontino. Per chiudere in bellezza. E aggiungere gli auguri per le prossime festività.

Firenze dicembre 1996

Il frangipane

Un profumo italiano del ‘500

Mentre tutti conoscono le fortune degli Italiani che inventarono l’Acqua di Colonia – G.  B. Feminis e suo nipote G. M. Farina – raro avviene di trovar ricordata la storia di un altro profumo che, partito da Roma, ebbe un trionfo di parecchi secoli specialmente in Francia e che diffuse così all’estero il nome di una delle più illustri famiglie romane.

La famiglia dei Frangipani è infatti notissima non solo agli studiosi della vita romana del medioevo, ma anche a chi semplicemente può ricordare che apparteneva ai Frangipani anche quel castello di Astura in cui venne imprigionato Corradino di Svevia dopo la battaglia di Tagliacozzo. Il cognome sembra discendere da un Frangapane di cui si avrebbe notizia prima del 1000 e si dice alluda anche al privilegio di rompere il pane in una particolare cerimonia sacra, tanto che non a caso si darebbe il nome di frangipane ad una specie di marzapane della stessa pasticceria moderna.

Fu appunto Muzio Frangipane, vissuto nella seconda metà del Cinquecento e ufficiale delle milizie papali che ebbe a trovarsi anche in Francia quando regnava Carlo IX, figlio di Caterina de’ Medici, a dare il nome a questo profumo.

Siamo nel pieno fiorire del nostro Rinascimento, vera età d’oro della profumeria italiana che, non meno dell’arte farmaceutica, diventa oggetto di studi e di cure personali da parte di principi e di donne famose: Francesco I de’ Medici e Bianca Cappello a Firenze, Alfonso ed Isabella d’Este a Ferrara, Caterina Sforza che compila il suo celebre formulario. E intanto l’arte degli speziali pubblica il Ricettario Fiorentino, Leonardo da Vinci e G. B. Della Porta

(Liber de distillazione, 1565) studiano metodi di estrazione delle essenze; e per le bionde dame della Serenissima escono a Venezia trattati di cosmetica di Federico Luigini da Udine (Libro della bella donna, Venezia 1554) di Marinello (Gli ornamenti delle donne, Venezia 1574), di Isabella Cortese (Secreti della signora Isabella Cortese ne’ i quali si contengono cose Minerali, Medicinali, Artificiose e Alchimiche et molte dell’arte perfumatoria appartenenti a ogni gran signoria, Venezia 1574).

Caterina de’ Medici sul trono di francia è l’ambasciatrice di queste raffinatezze italiane e ne diffonde rapidamente la moda: Tutte le più belle donne di Francia si vantano di essere clienti dei profumieri italiani ed ai loro segreti- ritenuti addirittura dettame di Paracelso- deve la sua bellezza, trionfante sull’età, la stessa favorita di Enrico II, Diana di Poitiers.

Margherita di Valois, sorella del re e divenuta poi consorte di Emanuele Filiberto di Savoia, è chiamata Margherita delle Margherite; e insieme è tutta la corona delle dame descritte da Pietro Brandone nella sua Vita delle donne Galanti.

Il profumo inventato e diffuso specialmente in Francia da Muzio Frangipani era descritto come una polvere composta di parecchi aromi del tempo con aggiunta la polvere di ireos e di piccole quantità di muschio e di zibetto.

Letizia

VECCHIA QUERCIA

Letizia. Sua madre l’aveva chiamata così. Perché fosse sempre gioiosa. Letizia, si chiamava così.

Nessuno lo sapeva, ma lei, tutte le notti usciva a guardare il cielo. Abitava in una vecchia casa, circondata da un immenso giardino che il padre, solo lui, curava.

Letizia lo scrutava nella notte e ne assaporava gli intensi odori. Lei li adorava, credeva che essi fossero l’essenza ultima di ogni cosa. E soprattutto se ne inebriava quando aveva piovuto, e aveva smesso da poco: la terra, umida, l’aria ancora teneramente lacrimante, il cielo, ancora un po’ imbronciato…gli odori erano forti e il vento li aiutava a mescolarsi, naturalmente, e a giungere al suo olfatto, a stuzzicare dolcemente, ingenuamente, i suoi pensieri… i pensieri di Letizia, una ragazzina di appena tredici anni.

E usciva di casa tutte le notti, soprattutto in quelle invernali. Ma lo faceva anche d’estate, e lo faceva sempre da sola. Letizia era molto solitaria, eppure la gioia del suo cuore faceva di quei momenti gli attimi più belli della sua giornata e della sua vita.

Adesso Letizia ha sessantasette anni…esce ancora di notte d’estate e d’inverno…esce ancora da quella vecchia possente e rassicurante casa…e assapora gli odori tutta la notte, e continua a farlo da sola.

È ancora molto solitaria, lo è sempre e la gioia del suo cuore adesso è quella di una donna che ha imparato a piangere, piangere e sorridere…

Ma è da un po’ che letizia esce più volte sempre durante la notte, perché di giorno dipinge le sue tele…

Già, esce più volte, come se avesse paura del fatto che un giorno non potesse più farlo e allora, adesso che può, lo fa più volte. Ma sorride sempre, come sempre; i suoi tredici anni sono ancora dentro di lei, come lo è il suo giardino, il cielo, la terra umida…la pioggia…gli odori di tutte le cose…

Letizia li adora ancora e forse più di prima.

Io quasi mi commuovo quando la guardo, quando lei mi guarda…si sofferma sempre dentro al verde fitto delle mie foglie e tronco, ormai vecchio…i suoi occhi scendono, e il suo sguardo s’imprime su ogni ruga della mia corteccia…e io mi commuovo…e per esprimerle il mio sentimento lascio andare qualche mia foglia, come gesto d’amore.

Ma anche Letizia si commuove, io vedo che le tremano le labbra e che i suoi occhi diventano lucidi, anche se continua a sorridere…pur nell’oscurità della notte, io la vedo, la vedo bene, anche se lei crede d’esser sola nel suo giardino.

Ma io son qui da prima che lei nascesse e la conosco, forse, più di quanto lei conosca se stessa…

Letizia.

Il vento mi ha detto che da domani non uscirà più nella notte, né più volte, né solo due o solo una… Non avrà più sessantasette anni, non avrà più età.

Forse dipingerà le sue tele anche nelle notti. Ma per me è Letizia.

Stamattina l’ho sentita cinguettare una canzone e stanotte mi ha sorriso, mentre mi guardava e mentre la guardavo anch’io. Cinguettava il sibilo del vento, malinconico eppure morbido.

Da domani, nella notte, non uscirà più, ma io continuerò a commuoverli, quando la penserò, quando cinguetterà e quando non lo farà.

Una foglia lascia la mia chioma, e lei forse non la vede, ma io la lascio andare.

Una foglia che… si chiama Letizia.